Alla fine, Sergio Mattarella ha rotto il silenzio. Dopo due giri di consultazioni in cui i partiti non sono riusciti ad andare oltre litigi e veti incrociati, stamattina il presidente della Repubblica ha deciso di entrare in campo affidando un “mandato esplorativo” alla presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, che ha varcato alle 11:00 in punto la soglia del Quirinale dopo la convocazione da parte del Capo dello Stato.
Al termine di un colloquio durato quasi cinquanta minuti, Casellati è stata di poche parole, dichiarando ai giornalisti che svolgerà l’incarico con “spirito di servizio”.
Il suo obiettivo non è affatto semplice: smuovere le acque e verificare se ci sono margini per la formazione di una maggioranza in Parlamento in grado di esprimere un nuovo esecutivo. Non si tratta quindi di un incarico di governo, ma di un escamotage che consente de facto di continuare le consultazioni. I tempi concessi sono strettissimi: Casellati ha tempo fino a venerdì, poi dovrà riferire al Capo dello Stato.
A quarantaquattro giorni dal voto del 4 marzo, che ha sancito un deciso “cambio di passo” nel panorama politico nazionale con il trionfo dei due principali partiti d’opposizione (Lega e Movimento 5 stelle) la pazienza dell’elettorato affamato di cambiamento si sta esaurendo, e Mattarella lo sa. Un’ulteriore accelerazione è giunta dall’incandescente crisi siriana, su cui il governo Gentiloni ha riferito ieri alla Camere.
Insomma, in questa fase tutti guardano con fiducia alla saggezza del Capo dello Stato. Soprattutto i partiti, che ora devono sbrigarsi a concludere eventuali trattative in corso. Il nome della Casellati circolava insistentemente da ieri, eppure il segnale che qualcosa stava per muoversi, il presidente della Repubblica l’aveva già dato durante il secondo giro di consultazioni, con un messaggio sottile e discreto (come nella tradizione del Quirinale). A differenza della prima convocazione, l'”ordine di salita” al Colle era cambiato: a essere chiamati per ultimi, dopo le delegazioni dei partiti, erano stati i presidenti di Camera e Senato, oltre al presidente emerito Giorgio Napolitano.
Un messaggio chiarissimo: in assenza di una maggioranza politica, il Quirinale era pronto a uscire allo scoperto, chiamando in causa proprio una carica istituzionale.
E così è avvenuto. Il metodo del “mandato esplorativo”, figlio di una stagione politica ormai lontana, è ritornato in auge oggi più che mai date le incredibili somiglianze tra il sistema elettorale proporzionale della prima repubblica e quello nel quale siamo di recente ripiombati.
Da Giovanni Leone a Nilde Iotti, nel corso della storia gli esploratori non hanno quasi mai centrato l’obiettivo “ufficiale” e non è dunque detto che Casellati riesca a mettere a segno la sua missione aprendo in quarantotto ore nuovi scenari. La sua ambasciata è però una mossa saggia per mettere i partiti alle strette.
Sul fronte politico, negli ultimi giorni il rapporto privilegiato tra Matteo Salvini e Luigi Di Maio sembra essersi incrinato: il leader Cinque Stelle ha infatti rifiutato qualsiasi intesa con Silvio Berlusconi, tentando senza successo di spaccare la fragile coalizione di centro-destra e di portare il capo della Lega dalla sua parte. Non sappiamo se il veto su Forza Italia è destinato a cadere, ma per ora i pentastellati non possono permettersi di fare marcia indietro per non sfigurare di fronte allo zoccolo duro del proprio elettorato, ferocemente antiberlusconiano.
Parallelamente, in queste ore Di Maio pare aver fatto un piccolo passo avanti nel dialogo con il Partito Democratico, trovando per la prima volta timide aperture da parte di Maurizio Martina su alcuni punti programmatici, primo fra tutti il “reddito di inclusione”. Si tratta solo di un diversivo o dell’indice di una possibile intesa? È ancora troppo presto per dirlo.
Di sicuro, nei prossimi giorni i partiti dovranno smussare le loro posizioni, e in tale contesto persino la candidatura alla premiership di Di Maio (uno dei punti su cui fino a ora i pentastellati non sono disposti a transigere) è probabilmente destinata prima o poi a cadere.
Se la “mission impossible” della presidente del Senato dovesse fallire e rimanessimo in una posizione di stallo, infine, la palla passerebbe di nuovo a Mattarella, che potrebbe fare un ultimo appello ai partiti o mettere già sul piatto una figura terza su cui far convergere le forze politiche. Appena quarantotto ore, e vedremo di nuovo in azione il Quirinale.