“Siamo figli del Vesuvio, forse un giorno esploderà…”. Non leggetela: cantatela. Perché non è una frase ma la strofa di un coro, quello che i napoletani usano negli stadi beffeggiando chi quel Vesuvio lo invoca affinché eruttando lavi Napoli e i suoi abitanti. Hanno imparato a farsene beffa, sì, i napoletani hanno imparato a dirlo, anzi a cantarlo, che sono orgogliosi di ciò che gli altri considerano un mezzo di morte: o’ Vesuvio, il gigante buono, che buono non l’è stato mai nella storia di questa Campania un tempo Felix, ma non per questo nelle terre alla sua ombra si è smesso di amarlo e rispettarlo.
La vita gli è stata costruita intorno, incurante del pericolo di svegliarsi ogni giorno alle sue pendici: ero piccola e mi ricordo di una specie di legge, quella per cui chi viveva nella zona “rossa”, a rischio distruzione in caso quel gigante si svegliasse dal suo sonno, e accettava di andarsene sarebbe stato lautamente pagato per andare via, in un’altra regione “gemellata”, se non ricordo male. I ricordi sono vaghi e confusi ma quello che ricordo bene è che nessuno di mia conoscenza accettò quella proposta. Nemmeno l’idea sfiorò la mente di chi qui è nato e ci ha vissuto e che probabilmente è lo stesso che ora, da giorni, uccide quel colle circondato dal Monte Somma, che gli dà fuoco, irriconoscente verso il simbolo indiscusso e indiscutibile di questa città e costringe chi lì vive ad abbandonare case e vite.

Il Vesuvio non è una parte di Napoli, non è una zona di questa città, non è nella terra della sua provincia, vesuviana appunto: il Vesuvio è Napoli. Come il cuore è il corpo di un uomo, il nostro Vulcano è il cuore di questa città. Un cuore che pulsa, batte, è vivo e che da giorni brucia per mano dolosa, come si dice in gergo. Per mano vigliacca, aggiungo io, criminale si scriverà nelle inchieste. Perché la vigliaccheria di incendiare per distruggere, per un disegno di camorra forse, è l’animo maledetto di chi mette a rischio la vita di chi ama Napoli e qui resta perché qui è nato. Io qui sono nata e da qui non ho mai nemmeno pensato d’andar via. Io che dopo 35 anni m’incanto ancora, e sempre, a passare sul Lungomare e a vederlo lì, il Vesuvio maestoso. Io che non ho ricordi dove non ci sia anche lui. Io che come tutti qui, le gite scolastiche le ho fatte per anni a “Pompei ed Ercolano”, in quelle terre distrutte dall’eruzione dell’antichità che uccise e cristallizzò quei corpi terrorizzati nella lava che oggi andiamo a vedere. Io che “all’ombra del Vesuvio”, lo uso nei servizi per il tg quando non voglio ripetere “Napoli”. Io che n’gopp’ o’ Vesuvio, c’erano i ristoranti a buon mercato ma panoramici della domenica. Io che il cappello bianco del Vesuvio d’inverno, mi ha sempre emozionata, facendomi pensare che Napoli quel tutto ce l’ha davvero: il mare, il sole, la pizza e pure la neve, che a vederla da vicino, sul Vesuvio è sempre bella. Io che lo guardo come se fosse l’eterno Nord della bussola della mia vita, il riferimento visivo dell’amore per questa città del Sud. Io che piena d’orgoglio, il mio libro l’ho fotografato davanti a lui, davanti al Vesuvio. Io che vivevo e vivo nella zona “rossa” e che ho raccontato negli ultimi 10 anni degli innumerevoli piani di emergenza e di evacuazione “se il Vesuvio scoppiasse”.

E immaginate ora cosa può voler dire per me e per i napoletani vedere il Vesuvio che brucia: non è solo un vulcano vigliaccamente dato alle fiamme nell’indifferenza di chi vive a Nord di questo stivale e che non può di certo capire. No, per un napoletano il Vesuvio che brucia non è solo questo: per un napoletano è un colpo al cuore, perché lo cantiamo tutte le domeniche allo stadio, perché noi Siamo figli del Vesuvio. E non ci importa se un giorno esploderà.
Nunzia Marciano, napoletana, giornalista tv di Canale 8, è l’autrice di Single per legittima difesa, AlessandroPolidoroEditore, 2016