Irene Dionisio ha trent’anni e ha già debuttato con il suo primo lungometraggio al cinema. Per questo e per altri motivi legati al suo talento, è considerata da molti una promessa del cinema italiano.
Classe 1986, torinese, Irene ha cominciato ad avvicinarsi alla regia tramite il documentario, dopo la laurea in filosofia estetica e sociale all’università di Torino. Nel 2010 ha frequentato il master di cinema curato dai registi Andrea Segre e Marco Bellocchio e subito dopo il master Ied diretto dalla regista Alina Marazzi. Nel 2008 ha fondato, con altri amici, Fluxlab, all’interno del quale porta avanti progetti artistici di videoarte e installazioni. I suoi lavori documentaristici hanno affrontato, fin dall’inizio, i temi che poi sono confluiti nel suo primo lungometraggio di finzione dal titolo Le ultime cose: il lavoro, l’integrazione, la crisi economica, la trasformazione della società e delle sue regole, la migrazione, la malattia, l’emarginazione sociale, le questioni di genere, i diritti Lgbt.
Il suo documentario d’esordio, Fières d’être Pute, girato in Francia e in Svizzera nel 2010, racconta il mondo grottesco e intimo di un gruppo parigino di prostitute, composto da transessuali, lesbiche, travestiti ed etero che ha creato un sindacato per i lavoratori del sesso, chiamato Strass. A seguire, un altro film documentario girato in Francia insieme a Paola Anzichè, Sur le traces de Lygia Clark: un ritratto corale della pittrice e scultrice brasiliana Lygia Clark e dei suoi anni alla Sorbona di Parigi, dove è stata invitata a tenere il corso “Il gesto e la comunicazione” tra il 1970 e il 1975. Nello stesso anno, Irene ha girato il primo documentario sul tema del lavoro, La fabbrica è piena. Tragicommedia in otto atti, in cui insieme a dei protagonisti tragicomici – due senzatetto che vivono nella fabbrica abbandonata – ha aspettato la demolizione dello stabilimento Fiat Grandi Motori di Torino, spazzato via da un nuovo centro commerciale. Nel 2013 ha girato insieme a Vieri Brini Ufficio nuovi diritti, documentando la nascita di un ufficio di assistenza e di alfabetizzazione sui temi dell’orientamento sessuale, sulla discriminazione e sul mondo Lgbt all’interno della Cgl di Asti, finalizzato all’introduzione di corsi di sensibilizzazione nelle scuole della zona. Nello stesso anno ha portato a compimento anche Il canto delle sirene, che prende il nome dal gruppo di aiuto agli uditori di voci di Torino, in cui affronta, grazie alle testimonianze intime di alcuni uditori, il tema delle allucinazioni uditive, che riguarda il 4 per cento della popolazione italiana.
Nel 2014 ha realizzato un progetto visivo dal titolo Quel événement imprévisible: un percorso video-fotografico sul forte di Mont-Dauphin, un ex avamposto militare costruito in Francia durante il regno del Re Sole, dimenticato fino alla Seconda Guerra Mondiale, quando fu bombardato, e poi riscoperto dai turisti del 21º secolo. Il racconto di un non-luogo ispirato alla fortezza Bastiani de Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati, in cui la fiction, la videoarte, il cinema di osservazione e il documentario antropologico si incontrano. L’anno dopo ha realizzato Sponde. Nel sicuro sole del Nord, un documentario – che le è valso il Premio Solinas – in cui due uomini, un lampedusano e un tunisino, si parlano tramite lettera e condividono il dramma degli sbarchi dei migranti, a partire da due sponde diverse dello stesso mare. Il 2016, infine, è l’anno del suo primo lungometraggio di finzione, Le ultime cose, in cui tutti i temi che le stanno a cuore si sono incontrati in un’unica narrazione. Ispirato alle dinamiche che la regista ha osservato lungamente al banco dei pegni di Torino, il film, tramite tre personaggi diversi che incarnano diversi tipi di relazione con il debito, racconta la crisi economica e morale in cui verte il nostro Paese, senza toni giudicanti o apocalittici. Sandra, la transessuale che impegna una vecchia pelliccia di valore per ricominciare una vita a Torino, Michele, il pensionato che si indebita per comprare un apparecchio acustico al nipote, e Stefano, il giovane volenteroso appena assunto al banco dei pegni, che presto perderà la sua morale illusa e ottimista: sono i tre Virgilio che Irene Dionisio ha scelto per raccontare la vergogna, la paura e i piccoli crimini in cui il debito lentamente fa scivolare; i tre punti di vista scelti per mettere in scena il gioco delle parti tra chi impegna i propri oggetti per necessità e chi ne fa un lavoro e talvolta un business. La giovane regista ha potuto contare su un cast tecnico di grande pregio, che vede alla fotografia Caroline Champetier, che in passato ha lavorato con Jean-Luc Godard, Jacques Doillon, Benoît Jacquot e Xavier Beauvois e Leos Carax tra gli altri, e al montaggio Aline Hervé, che ha montato i film di Pietro Marcello, Andrea Molaioli, Paolo Sorrentino, Bernardo Bertolucci, oltre a una lunga serie di documentari. Tra gli attori principali, il casertano Roberto De Francesco nei panni del creditore senza scrupoli, Alfonso Santagata nel ruolo di Michele, il pensionato che chiede un prestito al cognato ricettatore interpretato da Salvatore Cantalupo, allo scuro della moglie messa in scena da Anna Ferruzzo. Nei panni del giovane Stefano, invece, il siciliano Fabrizio Falco, già noto al pubblico per la Bella addormentata di Marco Bellocchio e È stato il figlio di Daniele Ciprì, che gli sono valsi il Premio Mastroianni al Festival di Venezia. Al suo brillante esordio, invece, l’attrice transessuale Christina Andrea Rosamilia, che interpreta Sandra, la ex prostituta trans che torna in città per ricominciare da capo. Le ultime cose è stato presentato in concorso alla Settimana Internazionale della Critica della 73ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e ha preso parte al festival Open Roads: New Italian Cinema di New York, dove abbiamo incontrato la regista, da poco diventata direttrice del Torino Gay & Lesbian Film Festival.

Il tuo è un film sul debito: com’è nata l’idea di ambientare un film in un luogo così inusuale per il cinema italiano?
“Non ho ancora capito perché il banco dei pegni non sia un luogo di cinema in effetti. Sono un’amante dei film di Frederick Wiseman, il documentarista che lavora nelle “istituzioni totali”, e quindi quando ho deciso di fare un film sulla crisi economica ho pensato ‘Lo voglio fare come se girassi un documentario’. All’inizio doveva essere un documentario, poi è diventato un film di finzione. Allora mi sono chiesta ‘Qual è un posto in cui poter raccontare questi meccanismi?’ È stata quindi una partenza molto intellettuale, perché ci sono arrivata solo dopo averci pensato, non l’ho incontrato nella mia strada come succede di solito nel documentario. Quindi sono capitata dentro al banco dei pegni di Torino e il giorno dopo ho capito che avrei fatto il film lì: le dinamiche del fuori, del dentro, le persone che arrivavano, era tutto incredibile”.
Quello che hai raccontato nel film è ispirato a questo lavoro di ricerca che hai fatto prima?
“Sì, è tutto vero quello che c’è nel film. Le persone che stanno fuori sono i ricettatori del banco dei pegni di Torino, per esempio, e sono delle persone che si sono messe in scena nel film. È stato tutto un raccogliere ed elaborare tanti materiali. Infatti il film dura un’ora e mezza, ma è molto denso, succedono tante cose, perché non è stato facile scegliere tre storie e non volevo sceglierne una sola, perché per me era importante raccontare la moltitudine e gli incroci tra le persone, riportare questa sensazione di girone infernale, come se fosse una giostra”.
I tre personaggi che hai scelto, infatti, raccontano diversi aspetti del debito…
“Sì, ognuno ha una propria sfaccettatura, una propria prospettiva: c’è chi lavora dentro, chi lavora fuori, chi arriva come cliente. Per me l’importante era dare l’idea di un gioco prospettico, infatti a seconda di come lo guardi e a seconda di quale personaggio che scegli di seguire di più, diventa un film diverso. Io ogni volta che lo guardo mi dà diverse sensazioni. La volontà era quella di raccontare una coralità”.

Quanto c’è del tuo bagaglio documentaristico a livello tematico e tecnico in questo primo film di finzione?
“Tantissimo. A me interessano certi temi, che sono un po’ gli stessi che ho esplorato nei documentari precedenti. Facendo una ricerca per il film involontariamente ci sono tornata sopra. La cosa che lega questo film al documentario è il lavoro di ricerca e la raccolta di materiali, fatta sul posto e il coinvolgimento delle persone del banco dei pegni nel film. E poi anche nel lavoro con gli attori, perché i personaggi che ho scritto nascevano da persone reali che ho incontrato e trovare gli attori con quei profili non è stato facile, perché avevo le idee troppo chiare su come dovevano essere. Spesso sono state le persone reali che si sono messe in scena dove possibile, in altri casi, sono gli stessi attori ad aver avuto un vissuto simile ai personaggi. Il casting del film perciò è stato un casting da documentario – perché anche nel documentario si fanno i casting. Nel girare invece c’è stato un approccio cinematografico di finzione”.
Perché sei partita dall’idea di un documentario e hai deciso di trasformarlo in film di finzione a un certo punto?
“È stato determinante il mio incontro con la mia direttrice della fotografia: lei [Caroline Champetier, n.d.r.] un personaggio molto forte, con una grandissima esperienza. Io invece ero al mio primo film. Ci siamo incontrate con due background diversi, ma questo incontro ha creato a livello teorico e filmico una giusta visione rispetto alla mia visione registica e rispetto alla camera nei confronti del regista, perché l’operatore non è una macchina, spesso è un autore a sua volta – questo lo dico perché è fondamentale. Nella nostra relazione ci siamo costruite un nostro nuovo lessico. Il film è filtrato dalla sua camera, la regia è filtrata dalla fotografia e viceversa, quindi da quel punto di vista sono contentissima. Lei ha lavorato tantissimo con autori della Nouvelle Vague francese, è un gigante, quindi quando lei mi ha detto che leggendo ha pensato a una ricerca simile a quella di Bresson il suo punto di vista era forte, mentre io avevo la mia idea di regia e nella preparazione del film abbiamo visto film insieme, ci abbiamo lavorato molto insieme. Perché è giusto così: il film non lo fa il regista, il film lo fa la squadra. Ogni film è messo insieme dal regista nei suoi vari pezzi, dagli attori che hanno improvvisato, alla montatrice, al produttore ecc. Il regista è un coordinatore, che ha la visione finale, che deve portare tutto verso una visione finale”.
Cosa ti piace del documentario e cosa ti piace della fiction?
“La ricerca resterà sempre quella documentaristica perché secondo me ti permette una profondità diversa, poi, come si dice, reality is more than fiction: nella realtà trovi delle idee incredibili. Nello scatto verso la finzione, invece, mi piacerebbe lavorare di più sulla tecnica, perché avendo girato un film per la prima volta mi sono resa conto delle possibilità che sono incredibili. Un film è una magia: hai tutto nella testa e a un certo punto trovi un set uguale a quello che hai pensato. È abbastanza impressionante. Non è una cosa che ti aspetti. Per me è stato così: a un certo punto mi sono resa conto che quello che avevo pensato a un certo punto diventava vero ed è una magia”.

Tu sperimenti tanto con la tecnica nella video-arte…
“Sì, la uso come capo di ricerca libera, perché non mi reputo un’artista, ma lavoro nel campo dell’arte e mi interessa sperimentare. Lì hai molta più libertà a livello narrativo e di codici. Mentre il cinema, soprattutto quello industriale (non il documentario che è più libero), tendenzialmente accetta le sceneggiature blindate, non ti permette di fare degli esperimenti. Lo guadagni col tempo. Tutti dicono ‘Dopo il primo film devi fare il secondo e il terzo’ ecc, quindi è dura. Anche se io sono tranquilla, perché a me l’idea di poter fare anche solo documentari va benissimo”.
Hai un cast tecnico di altissimo livello…
“Di Caroline Champetier abbiamo già parlato: è un vero talento della fotografia. Passando al montaggio, Aline Hervé è una montatrice di documentari soprattutto. Quando ho iniziato a girare ho capito che volevo una persona che non montasse materiali di finzione, che montasse in modo diverso. Avevo amato tanti dei film che aveva montato, come i film di Pietro Marcello, di Giovanni Cioni, che sono dei documentaristi importanti. L’ho incontrata, mi è piaciuta tantissimo. Prima del mio aveva già montato Liberami di Federica Di Giacomo tra l’altro. Normalmente quando arriva il final cut le esigenze del regista e del produttore si scontrano – io non lo sapevo – e lei ha difeso fino all’ultimo la mia versione del film anche andando contro a dei suoi interessi personali, e non è molto comune questa cosa. Tutte le persone con cui ho lavorato ormai sono la mia famiglia, i prossimi film li farò con loro sicuramente. Hanno molto creduto in me, nel film, c’è stata molta unione”.
Il tuo cast tecnico è a maggioranza femminile, è un caso?
“Sì è vero, siamo tutte donne o quasi. Il mio produttore mi ha imposto come scelta di avere almeno l’aiuto-regista maschio, perché per il resto eravamo tutte donne. Lui comunque è fantastico, quindi va benissimo! Io lavoro molto bene con le donne. Questa è la prima volta che lavoro con una montatrice donna, però, finora al montaggio avevo avuto solo montatori uomini, non so perché”.

Che ne pensi dei discorsi fatti a Cannes sulla minoranza cronica di registe donne al cinema e nei festival?
“La DEA, Donne e Audiovisivo, ha fatto una ricerca su questa cosa e in effetti le donne sono meno finanziate, arrivano più difficilmente degli uomini al cinema, sono distrutte in effetti. Da una parte c’è una grandissima autocensura personale, nel senso che la donna anche nel crescere non si mette in una posizione di potere, tra virgolette, assorbendo la cultura che assimiliamo, che è maschilista e patriarcale. Per esempio soltanto adesso nei film della Walt Disney vedi nei film dei personaggi femminili diversi, le eroine sono brave in qualcosa, non sono solo belle come in passato e non sono solo principesse. C’è un’evoluzione di immaginario. Ora finalmente la donna ha scoperto che il proprio ruolo di genere non è definitivo, quindi è in crisi, com’è in crisi l’uomo. Tutto questo crea una grande difficoltà nel gestire la società e nel comunicare tra generi”.
Ti senti un’ambasciatrice del cinema femminile?
“Io mi sento una regista, non mi sento di rappresentare il genere femminile. Quando dicono ‘Questo è un punto di vista al femminile’ vorrei rispondere ‘Ma cosa vuol dire?’ Penso che sia ulteriormente discriminante “essere al femminile”. È come dire ‘Hai fatto un film da donna’. Nel mio film, tra l’altro, il femminile viene addirittura superato, perché Sandra è una trans e tocca altri temi legati al genere. Io apprezzo il femminismo come movimento, anche se non mi sento femminista oggi, ma penso che il movimento sia stato fondamentale e un po’ come tutti i movimenti di liberazione a un certo punto si deve uscire dal ghetto identitario, bisogna immettersi nella comunità non esclusiva, in ruoli di genere che sono parificati e rispettano le differenze, perché siamo differenti e questo è innegabile. La donna può partorire e l’uomo no, questo è un fatto”.
Quali sono i tuoi riferimenti cinematografici?
“Del cinema italiano del passato mi piace tantissimo il Neorealismo perché lo trovo davvero trasgressivo ancora oggi. E poi Elio Petri, Marco Ferreri. Mentre adesso c’è una nuova onda che adoro che va da Pietro Marcello a Leonardo Di Costanzo, Matteo Garrone, Alice Rohrwacher, sono tutti dei grandissimi cineasti. Il cinema italiano non è morto, anzi. È morto per motivi industriali, non per motivi autoriali. Gli autori ci sono. Che il mio film sia uscito è un miracolo, perché se io avessi fatto questo film senza una produzione con un percorso prestigioso alle spalle, il mio film non sarebbe nemmeno uscito e io a 30 anni non avrei mai esordito. Marco Danieli per esempio ha vinto il David Di Donatello quest’anno, ma ha 40 anni e fa il regista da 15 anni. Questo è il vero problema italiano: creare nuovi autori, che significa anche fare delle scommesse imprenditoriali che non tutti sono pronti a fare. Appena fai le scommesse vieni premiato. Per esempio l’attrice che interpreta Sandra nel mio film adesso sta ricevendo molte chiamate anche da registi importanti, ma io mi chiedo ‘Perché devo essere io a scoprirla? I grandi autori dovrebbero dare la possibilità a nuovi visi e a nuovi tecnici di lavorare, non gli esordienti’ C’è una casta professionale, una casta romana del cinema: quello è il più grande difetto del cinema italiano, non è l’autorialità. A me nessuno mi avrebbe prodotta, se non il mio produttore che è pazzo e ha creduto in me. Ma io non voglio essere un’eccezione. Quando mi dicono che sono un talento, io penso di non esserlo, penso che mi hanno solo dato la possibilità di fare un film, cosa che non succede ad altri. Conosco tantissimi altri giovani di talento”.

Cosa consigli ai giovani registi?
“Di fare documentari e a un certo punto farsi scovare da qualche produttore. L’industria a un certo punto si dovrà rendere conto che ci sono nuove energie creative! Il documentario è la strada in questo momento secondo me”.
Quali sono i progetti per il futuro?
“Stavo scrivendo un film prima di venire qua a New York, ma adesso ho interrotto la scrittura per il festival. A luglio mi rimetterò a scrivere. Sarà un film di finzione, mi piace molto l’idea. Per il resto, vorrei andare via dall’Italia. Mi piacerebbe il sud-est asiatico, Thailandia forse. Ci stiamo pensando con il mio compagno. Lì la gente è molto ospitale e poi è un paese buddista, molto spirituale. In Italia l’ambito del cinema ti esaurisce, ti prende tanta energia. Mi piacerebbe fare un po’ qua e un po’ là, stiamo cercando di costruire questa alternativa. Speriamo bene”.
Guarda il trailer di Le ultime cose:
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