Da pochi giorni il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini ha annunziato la proclamazione di Palermo capitale italiana della cultura per il 2018, scelta assai facile se le concorrenti erano Alghero, Aquileia, Comacchio, Ercolano, Montebelluna, Recanati, Settimo Torinese, Trento ed Erice. Senza nulla togliere alle loro caratteristiche peculiari in confronto alla decina di secoli di cultura palermitana. Con seguito di polemiche, anche per un fatto positivo, si vive ormai solo di queste nella comunicazione globale del post moderno e del post verità. Leoluca Orlando si autocelebra per la sua campagna, si dice. Eppure nulla aveva potuto di fronte all’archeologia dei Sassi di Matera, città senza ferrovia e senza strada, detentrice di quel discutibile tesoro, troppo poco per essere simbolo di Italia e di Europa. Ma così vanno le scelte di premi, onorificenze e Nobel. Palermo accoglierà nello stesso 2018 “Manifesta”, la più grande Biennale di arte contemporanea migrante, incentrata sul tema dell’”accoglienza”, tema simbolicamente gioioso contro l’oltraggiosa “integrazione”.
Questo ho voluto mettere in proemio per ricordare in tema di cultura la grave perdita per Palermo e la Sicilia, la scomparsa, proprio ora, di Antonino Buttitta e il vuoto che ci ha lasciato.
Era nato nel 1933 a Bagheria, e in molti della stessa classe degli anni Trenta sentono la chiusura di un’epoca, l’uscita di scena di tanti eccellenti che hanno sostenuto e promosso la cultura di questa città, particolare e unica, riletta come la “Tutto Porto”, a cominciare da Francesco Renda, lo storico completo della Sicilia, Massimo Ganci e l’altro bagherese Natale Tedesco, per citarne i recenti che mi vengono in mente.
Buttitta era stato professore ordinario di discipline antropologiche all’Università di Palermo e preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dal 1979 al 1992. Antonino, Nino per tutti coloro che lo conoscevano e frequentavano, è cresciuto assieme a noi. Erano gli anni dell’impero incontrastato di Giuseppe Cocchiara, il deus, che aveva proseguito l’invenzione-intuizione di Giuseppe Pitrè e aveva esaltato e ampliato la sua cattedra di demopsicologia, come volle chiamare allora nel 1910 il folclore. Ne erano nate tre distinte cattedre della facoltà di lettere, quella di etnografia, l’altra di tradizioni popolari, l’altra di antropologia sociale, con una serie di assistenti e corsi affollatissimi di appassionati o semplici cultori di materie facoltative.
L’esperienza culturale di Nino da quegli anni di apprendistato e di discepolato si è sviluppata su due linee che alla fine si intersecavano e integravano, spesso erano un tutt’uno.
Da una parte l’eredità paterna. Fu Ignazio nelle sue incursioni nelle scuole palermitane, con i suoi recitàl, così li chiamava. Era il poeta, un luminoso volume con dedica aveva il titolo Io faccio il poeta e in siciliano ‘faccio’ ha valore di «pratico un mestiere». Senza nulla a che vedere con il pavesiano mestiere di vivere. Era lui, Ignazio, piccolo commerciante ambulante, il praticante la poesia che aveva assunto come vero ed unico suo mestiere. Ma la sua poesia non era egotistica esaltazione del particolare, era la narrazione in immagini poetiche della esperienza quotidiana, ma anche degli eroismi del popolo siciliano. Se vogliamo dirlo in sintesi, era il canto delle tradizioni e dell’epica del popolo di Bagheria, che poi era quella del popolo siciliano. E del popolo di tutto il mondo con i suoi costumi, le sue tragedie e le sue glorie, tanto che anche a Mosca Ignazio faceva furore con i suoi incanti siciliani. Nino crebbe fra le invenzioni liriche di questo padre ingombrante, che girava scuole, affrontava teatri in Italia e all’estero, popolare e comunista, con la sua birritta ricamata, facendo il poeta. I suoi recitàl erano ammalianti, quella voce, quei gesti istrionici quel sorriso pieno di popolano, quella gestualità che ti abbracciava e coinvolgeva. Era il padre il nuovo Pitrè, il Salamone-Marino di Bagheria, quella Baharìa che farà rivivere il suo discepolo Tornatore. Da qui la sorgente per il Nino antropologo e ricercatore di tradizioni popolari. Una dinastia che ha coinvolto la moglie, Elsa Guggino, per amore e simbiosi ed empatia, e ha messo salde e ramificate radici nell’amico Ignazio nipote, già affermato e solido esperto del ramo.
Ma non si trattò solo della sua professione di cattedratico. Tanti professori hanno formato generazioni di giovani, glorie palermitane nel mondo checché se ne dica per masochismo denigratorio. Ma per fare cultura Nino si è speso fuori da quel chiostro di Via Maqueda e da quella saletta del Centro. Si è impegnato nella esternazione della cultura, che altrimenti resta arida sperimentazione di addetti. La sua attività si è sviluppata fra i circoli letterari, nei seminari, nelle conferenze, anche nelle semplici elementari presentazioni di libri, mestiere che ormai è assai diffuso anche da parte di non addetti.
Insieme si è offerta la cultura davanti ad un popolo di assetati, piccole briciole certo ma sostanziose in una società che brama cultura e trova soltanto trafficanti ed imbroglioni. Nino era sempre presente e accanto, anche se non aveva preparato l’intervento, ma esso stesso era sempre un dono di tanti anni di studio e ricerca. Chi lo ha avuto accanto, chi ha goduto della sua verve, anche delle sue facezie, sa che la cultura non può restare chiusa nei sacri tabernacoli di esperti assoluti.
Molti ricorderanno la collaborazione con l’eterna Elvira Sellerio. Anche in questa cerchia di amici e cultori di lettere scienza e conoscenza sarà difficile discernere (nel significato latino) quanto fu di Leonardo Sciascia, scrittore troppo esalato per romanzi e mestieranti di mafia, ma anche come Pigmalione della dirigente Elvira. Per amor di patria e per rispetto dei defunti la parte di fondatore promotore e organizzatore di quella fucina di ardore che fu quella stanzetta di Via Siracusa sarà sempre da definire. Come anche la funzione di Luciano Canfora. Certamente Nino vi ebbe una parte fondamentale, fondante in quel progetto che senza pudori o reverenze si attivò accanto e in concorrenza con i mostri editoriali del Nord. Le migliaia di volumi di classici e di nuove promesse ebbero una guida e seguirono scelte che non si possono relegare solo al maestro di Racalmuto.
Questa la cultura della quale si rimpiange il vuoto. Così detto in parole che avrebbero invece bisogno di maggior spazio.
L’altra linea che fu conseguente alle scelte ideologiche del padre e anche allo sviluppo diverso delle tradizioni popolari rispetto alla tradizione di destra fu la sua pratica politica. Il socialismo lo conobbe impegnato nelle lotte, nella scesa in prima persona. Altri meglio potranno dire le ragioni della sua scesa in campo, le vittorie o le delusioni, nel lungo percorso che si snodò dai tempi di Nenni fino alla débâcle ingloriosa di Craxi. Io posso soltanto dire che vi mise il suo volto.
Perciò l’uomo completo, l’uomo che cercava l’identità del suo popolo nelle ricerche scientifiche della tradizione e del costume, dell’uomo siciliano. Perciò le sue prime intuizioni sulla cultura figurativa popolare, più particolare nella pittura su vetro, per ampliare lo spettro su Ideologie e Folklore, Semiotica e Antropologia, Dei segni e dei miti. Una introduzione alla antropologia simbolica. Fondamentali gli studi sulle grandi feste siciliane, Il Natale. Arte e tradizioni in Sicilia e Pasqua in Sicilia, chiudendo nel 2003 con Il mosaico delle feste, per citare qualche titolo.
Carmelo Fucarino, siciliano di Prizzi, dopo essersi laureato in lettere classiche nell’Università di Palermo, ha insegnato lingua e letteratura latina e greca presso il Liceo classico «G. Garibaldi» della stessa città. Sensibile alla poesia, ha pubblicato liriche e dato contributi a riviste del settore letterario italiano, svolgendo un’ampia e continua attività di saggista nel campo degli studi classici. Oggi ha ampliato il suo campo di indagine alla storia locale all’etnologia e alle tradizioni popolari siciliane.