Un amico italo-americano, scrittore e docente universitario, soprattutto uomo saggio e cauto nei giudizi politici, sostiene che se Donald Trump si fosse confrontato con Bernie Sanders avrebbe perso. Questo l’argomentare: ambedue, calamitando il voto degli arrabbiati e delusi dall’ottennato di moscio liberalismo obamiano, avrebbero fatto il pieno. Ma il candidato della sinistra democratica avrebbe alla fine prevalso perché più credibile e navigato, rispetto all’incognita Trump. Piacerà (forse) all’illustre amico sapere che in una recente intervista a EuNews e ripresa su La Repubblica, l’ex capo della Cgil Sergio Cofferati, parlamentare indipendente nel gruppo socialista al Parlamento Europeo, ha affermato la stessa cosa: “… sono convinto che se negli Stati uniti si fosse scelto Sanders per correre contro Trump invece della debole signora, il risultato forse poteva essere diverso. Lui aveva una storia da raccontare che lei non aveva, rappresentava interessi che per lei erano sconosciuti. Trump ha vinto anche perché si è occupato, ha dato risposte ai potenziali elettori di Sanders.”.
A leggere i sondaggi effettuati negli ultimi due giorni di gennaio da Ipsos, si stenta a dar ragione sia a Cofferati che al mio caro prof., visto che le misure anti-rifugiati vi riscuotono un successo che non stupisce per la sua consistenza (51% le condividono e 41% non), quanto per la trasversalità che esprime, catturando consensi anche in larghissime fette di elettorato democratico. Almeno su immigrazione e sicurezza l’America è meglio interpretata dal destro Trump che dal sinistro Sanders.
Resta tuttavia la domanda. La gente, delusa dalla melassa centrista e liberal-globalista, se si trovasse a votare tra due posizioni radicali, ì’una di destra e l’altra di sinistra, siamo certi che favorirebbe sempre e comunque quella di destra?
Si parta da una constatazione. Si abbia il giudizio che si vuole sul terremoto politico che sta scuotendo le fondamenta politiche (teniamoci forti, che non è finita!) di quello che in molti chiamavano “Occidente”; per certo quel terremoto sta facendo giustizia dell’argomento principe del qualunquismo che ha ammorbato politica e testa dell’elettorato per un quarto di secolo, dalla caduta del comunismo.
Quell’argomento (sic!) affermava la fine delle ideologie e dell’etica politica, l’omogeneizzazione di ogni partito intorno al desiderio di arraffare potere e soldi collegati, la debellatio sempiterna di destre e sinistre.
Da adesso sarà più complicato raccontare questa storiella. Solo i terribilmente distratti o gli imbecilli volontari potranno riferirsi a un Obama e un Trump, per fare un esempio conosciuto, dicendo che sono la stessa cosa, i “politici di Washington” lontani dalla gente e rinchiusi nel ghetto Casa Bianca.
Non vi è dubbio che l’attuale presidente sia la destra dura e pura e che stile e contenuti della sua azione di governo siano le miglia distanti da quelli di Obama. Le distanze c’erano anche tra Bush e Clinton, tra Johnson e Nixon, ma qui tutto risalta più nitido.
Come si vedrà più avanti, succede qualcosa del genere anche in altri paesi, certamente in Europa. La politica si ravviva. Si torna a giocare, come un tempo, fra tre aree principali: la progressista, la conservatrice, la reazionaria. Non sono sempre facili da identificare perché spesso sottoposte a camuffamenti voluti per ingannare l’elettorato e imbarcare più adesioni e voti possibili, ma con un po’ di attenzione e onestà intellettuale, ci si arriva a vederli quegli schieramenti. La scelta, quindi, tra politiche diverse, è possibile.
Così la pensa il capogruppo dei Socialisti e Democratici (S&D) al Parlamento Europeo, Gianni Pittella, uscito sconfitto dal centrista popolare Antonio Tajani nello scontro per la poltrona di presidente del Parlamento ma deciso a rendere più identitario il suo gruppo parlamentare e il partito Socialista Europeo, riportando in posti di responsabilità i leader di una compagine che incassa circa 35 milioni di voti.
Nell’intervista a EuNews Pittella perora il ritorno alla “normalità della contrapposizione politica”, e che si lascino definitivamente da parte le grandi coalizioni che hanno caratterizzato la recente fase delle istituzioni UE e di alcuni parlamenti nazionali, in Germania ad esempio. L’obiettivo sarebbe quello di recuperare “un respiro ideale e un orizzonte strategico anche con il confronto con le forze ambientaliste e di sinistra-sinistra”.
La scelta si renderebbe necessaria per i limiti mostrati dalla grande coalizione nella lotta ai populismi e nel contrasto delle politiche di austerità adottate nel decennio della crisi: causa, secondo Pittella, dello “scollamento tra società e politica”.
Più che idee di casa socialista e socialdemocratica, sembrano alcune delle tesi care al “Progressive Caucus” dove si mischiano vari radicalismi democratici. O quelle della trasversale bislacca (non)alleanza di integrali di sinistra (o presunti tali) europei, che fanno proseliti soprattutto nell’Europa mediterranea, annoverando anche un primo ministro, il greco Alexis Tsipras.
Quel radicalismo è cosa altra (di esso è stato detto: “vuole tutto e subito, ma non sa cosa”), dalla tradizione delle grandi socialdemocrazie di successo, quella tedesca e austriaca, quelle scandinave, in certe epoche anche quelle di Francia Italia Spagna Portogallo. Tenevano i comunisti alla larga dalle posizioni di governo, dialogavano con i sindacati dei lavoratori e i corpi intermedi, costruivano coalizioni riformiste di governo con centristi e/o liberali disponibili a far avanzare la società civile e lavoratrice, aprirla ai ceti dal basso e agli immigrati, limitare i privilegi storici del capitale e delle chiese istituzionali.
Quell’esperienza, con poche eccezioni, sembra storicamente superata: la società frammentata e liquida alla quale apparteniamo, non digerisce più le organizzazioni della stabilità, insegue novità e carismi, si rinchiude nel narcisismo dell’ego e delle società chiuse. Tende ad abolire le rappresentanze, anche quelle che tradizionalmente passavano attraverso i soggetti intermedi della cultura e dell’economia. E così facendo si ritrova a pencolare verso la destra qualunquista e nazionalista, dove il singolo si accasa in rete con altri singoli in attesa di mandare al potere il leader carismatico di turno che sa incorporare in piattaforma elettorale le loro aspettative di rivincita.
I socialisti democratici, i progressisti, i liberal e radical a tinta rosa, che con liberali e democristiani hanno fatto l’Europa e il mondo libero e ricco nel quale abbiamo vissuto sinora, riusciranno a far tornare nella “casa naturale” i voti che ne sono usciti verso i radicalismi nazionalisti alla Trump, solo se torneranno al popolo dal quale provengono.
Nel decennio di crisi, decine e decine di milioni di persone, lavoratori intellettuali e ceti medi, sono state spinte indietro, in termini di status sociale e di reddito, mentre vedevano nella porta accanto crescere privilegi e ricchezze ingiustificate, avendo talvolta il sospetto se non la certezza che la politica, anche quella di uomini di sinistra, fosse complice del disastro in corso, per corruzione e/o ignavia.
Bisogna che quella sinistra torni a parlare alla gente, proprio come ha fatto Sanders con i giovani progressisti statunitensi, e che in quel parlare rimbalzino i fatti che la gente soffre sulla propria carne ogni giorno: dalla crisi della famiglia, alla solitudine, all’insicurezza cittadina, alla criminalità, alle inefficienze amministrative, ai furti di denaro pubblico, alle disonestà, alle vecchie e nuove povertà. Quella sinistra deve dialogare con le persone che stanno male in termini personali e/o sociali, usando il linguaggio della verità, anche quando non è in grado di dare immediatamente le risposte che si cercano. E deve ascoltarle.
Narrare una realtà lontana dal vero, o almeno dalla percezione che la gente ne ha (capita con le posizioni che certa sinistra esprime su immigrati e rifugiati), fa crollare la credibilità non solo della sinistra ma della politica in genere. E in quel vuoto si fiondano i cosiddetti populisti, che attribuiscono colpe che non potranno mai giustificare perché inesistenti (capita con l’euro), non offrendo alternative alla situazione. Ma intanto, con il loro agitare, fanno crescere tensioni, alimentano la percezione di un futuro negativo che incute paura.
Difficile che siano i Jeremy Corbyn del Labour (tornare alle nazionalizzazioni!) o gli effimeri Nicki Vendola di Sinistra Ecologia e Libertà, sempre tentati dal veteromarxismo, a restituire al socialismo democratico e all’area progressista la capacità di tornare attraenti per l’elettorato. Per un esempio, Corbynomics, col piano di lavori pubblici che propone, non è distante dalle proposte che Trump ha lanciato in campagna elettorale. Difficile che quel piano possa essere armonizzato con le esigenze di energia verde, ambiente pulito, contenimento del deficit pubblico, etc. che costituiscono le preoccupazioni tradizionali degli schieramenti di sinistra. Non casualmente dette preoccupazioni non albergano nelle corde dei programmi trumpiani.
Più probabile che le campagne elettorali di Germania, e paradossalmente Francia, forniscano qualche segnale di rilancio dei contenuti socialisti e progressivi europei, e che questi possano saldarsi con analoghi contenuti che stanno spontaneamente sorgendo nelle tante americhe che si oppongono all’attuale presidente.
Meno interessante, sembra la partita politica in una Danimarca che ha assistito alla scomparsa del partito socialdemocratico di Helle Thorning Schmidt, ad opera della destra di Lars Lokke Rasmussen, quello che ai richiedenti asilo chiese di pagarsi il welfare. O nell’Olanda dove la grande crisi di una società apertissima ma incapace di rapportarsi all’immigrazione e alla questione islamica, rischia di vedere alle vicine elezioni il partito socialista a meno del 10% dei consensi, e la dominanza dei due partiti antieuropeisti. O nella Svezia della grande tradizione socialdemocratica, dove il partito che fu di Palme ha potuto governare solo grazie alla coalizione di minoranza stretta con i verdi. In quanto all’Italia, per ora velo pietoso in attesa di capire fin dove possa portare l’autolesionismo della sinistra, particolarmente attiva nella distruzione di quel poco di Pd rimasto.
In passato i socialisti ebbero da compiere la lunga traversata del deserto, dal marxismo al “laicismo” del nuovo pensiero non più ideologico, ma legato ai bisogni della gente comune, ai principi morali di eguaglianza giustizia e libertà, che peraltro erano stati alla fonte ottocentesca di quell’esperienza politica, poi in parte snaturata da marxismo e comunismo. Oggi c’è un’altra traversata da compiere: quella iniziata nel 2008 con la grande crisi finanziaria gettata dagli americani sulle spalle degli europei, e che merita ora di essere portata a compimento.
Nessuno meglio dei socialisti democratici può rilanciare il welfare e lo stato sociale sul quale è stata costruita la liberazione di intere società dal bisogno, e non solo in Europa. Dicano alla gente che sono pronti a tornare all’”economia sociale di mercato” e poi la rimettano effettivamente in campo, rendendola compatibile con l’esigenza di equilibrio nei conti pubblici, ovvio. E’ la carta vincente per “riportare” gli elettori nella casa della democrazia e far loro evitare i rischi del populismo.
Rilancino l’Europa. Nessuno meglio dei socialisti può imporre nell’agenda degli europei la questione del salto politico che l’UE deve compiere, pena la sua disintegrazione nel medio termine. Ed è un salto politico che deve includere la politica di difesa, la protezione delle frontiere, il muso duro con chi non vuole rispettare le leggi interne all’Europa e quelle della comunità internazionale.
Per queste politiche occorrono leader adeguati: sembra francamente bizzarro che non ce ne siano in un ambiente che ha prodotto, per stare all’ultimo mezzo secolo calibri come Olaf Palme, Willy Brandt, Helmut Schmidt, Bruno Kreisky, Bettino Craxi, Felipe Gonzalez, Mario Soares, Jacques Delors, François Mitterrand.
Si voterà presto e tanto in Europa. I socialisti arrivano alle campagne elettorali in condizioni di fuga dei consensi e di scarsa capacità di proposta. E’ la seconda più della prima che preoccupa chi vuole un mondo meno a rischio e più giusto.