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November 18, 2016
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Trump presidente? Niente paura, c’è stato di peggio

Peggiore campagna elettorale della storia degli Stati Uniti? Ma quando mai...

James HansenbyJames Hansen
jefferson adams

John Adams vs Thomas Jefferson: artwork di Bryan Anthony Moore, ripreso dal sito reddoormag.com

Time: 2 mins read

Il giornalismo tende per natura all’iperbolico e durante gli ultimi fatti elettorali americani c’è stato uno spreco di “peggiore campagna nella storia”, “peggiori candidati di sempre”, e così via. Però, nel contesto storico, quanto è successo durante le presidenziali 2016 —anche l’esito— è piuttosto blando, rimarchevole solo secondo gli standard più recenti.

Il primo Presidente, l’eroe della rivoluzione George Washington, fu eletto quasi per acclamazione e la vita politica americana, superata la ribellione coloniale, partì con sorprendente serenità. La situazione però degenera spettacolarmente quando l’eroe si ritira dalla vita pubblica. Le prime presidenziali “post-Washington” (1796) videro opporsi il Federalista John Adams e Thomas Jefferson, sostenuto invece dai “Democratici-Repubblicani”. I Federalisti, oltre ad accusare Jefferson di essersi comportato da “codardo” durante la Rivoluzione e di essere di “razza mista”, fecero sapere che la sua elezione avrebbe scatenato “una guerra civile e un’orgia nazionale di stupri, d’incesto e adulterio” e che i suoi sostenitori erano dei “tagliagola straccioni e pulciosi che dormono nella lordura”. I jeffersoniani invece accusarono Adams di essere un traditore filo-inglese e un monarchico (perché riteneva che il Presidente dovesse fregiarsi del titolo di “Sua Eccellenza”), nonché un grassone lardoso. Riuscirono a combinare i due concetti nel nomignolo che gli assegnarono: “Sua Rotondità”. Vinse comunque il ciccione.

Non andò meglio quattro anni dopo, nel 1800, quando gli stessi due candidati si ripresentarono. Adams fu additato come “un disgustoso ermafrodita”, mentre di Jefferson si disse—di nuovo—che fosse “figlio di una meticcia pellerossa e un padre mulatto”. Entrambi i partiti tentarono di truccare le elezioni manipolando le regole attraverso le quali i singoli stati sceglievano i loro grandi elettori. Vinse Jefferson la seconda volta, ma non finirono le ostilità. Il suo Vice-presidente, Aaron Burr, uccise in un duello uno dei principali capi dei Federalisti, il Segretario del Tesoro Alexander Hamilton. Hamilton, forse favorito dalla storia proprio per la sua scarsa abilità con la pistola, è ancora ritratto sulla banconota americana da dieci dollari, mentre Burr è pressoché dimenticato. Poi le cose peggiorarono.

Nel 1824 il candidato Andrew Jackson (il biglietto da $20) vinse sia il voto popolare sia quello dei “grandi elettori”, ma l’insediamento gli fu negato dalla Camera dei Rappresentanti in quanto aveva sì più voti di chiunque altro tra i grandi elettori, ma non ancora la maggioranza. La Camera assegnò invece la Presidenza a John Quincy Adams (il figlio di John Adams) per un solo voto, lasciando un certo rancore tra le parti… Jackson e Quincy Adams si sfogarono nelle elezioni di quattro anni dopo, quando il primo fu accusato di essere un pluriomicida e Adams, nel corso della sua attività diplomatica, di essersi prodigato a fornire “vergini americane” allo Zar di Russia.

Il tutto solo per dire come ebbe inizio la tradizione presidenziale Usa: inutile proseguire con il Presidente Ulysses Grant, che riteneva sprecata ogni giornata che doveva passare da sobrio, o Calvin Coolidge, che teneva un ippopotamo dal nome “Billy” con sé alla Casa Bianca—per non evocare Richard Nixon, che manda i suoi scassinatori al Watergate. Quisquilie.

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James Hansen

James Hansen

Americano della West Coast, vivo in Italia da molti anni. Sono arrivato, giovane, nel servizio diplomatico USA come vice console a Napoli. Lì ho capito che “da grande” non volevo fare l’ambasciatore. Sono passato al giornalismo come corrispondente dell’International Herald Tribune e del Daily Telegraph, in seguito spostandomi “dall’altra parte della scrivania” come capoufficio stampa di Olivetti, di Fininvest e infine di Telecom Italia. Da tempo mi occupo di “diplomazia privata”, accompagnando grandi aziende italiane nelle loro avventure internazionali. È la diplomazia che mi immaginavo da ragazzo, con obiettivi più o meno chiari e i mezzi e l’autonomia per perseguirli. An American from the West Coast, I have been living in Italy for many years. I got here young, with the diplomatic service as the US vice consul in Naples. There I realized that, as a grown up, I didn't want to be an ambassador. I turned to journalism as a correspondent for the International Herald Tribune and the Daily Telegraph, and later on, I moved to the “other side of the desk” as chief of press for Olivetti, Fininvest and finally Telecom Italia. I deal with "private diplomacy", backing up large Italian companies in their international adventures. It's the diplomacy as I imagined it when I was young, with more or less clear goals and the means and autonomy to pursue them.

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