A quindici anni lascia la sua Bari con una valigia in mano per andare a lavorare nelle cucine della Riviera romagnola. La cucina e il cibo sono stati più di una semplice passione. Stefano Salvemini, 44 anni, barese, dal 2008 a New York, si lascia alle spalle l’Italia e mette in valigia le sue esperienze tra i fornelli. Il diploma all’Istituto alberghiero, un anno a Roma, dove ha collaborato all’apertura di una steakhouse, i sei anni a Milano, prima come assistant manager e poi come manager in un French bistrot in zona Brera, e infine nella cucina del ristorante dell’Hotel Principe di Savoia e al Just Cavalli Cafè.
Nella Grande Mela ricomincia da zero e lo fa con passione, determinazione e una sana dose di ottimismo. Con la sua Vemini Genuine Italian Food vuole portare panzerotti e specialità tipiche pugliesi nelle tavole degli americani, mentre lavora come consulente e collaboratore di Terre Ducali, la prima azienda italiana a esportare salami negli Stati Uniti. È anche brand ambassador di Wineries of Italy Consortium, un consorzio che unisce alcuni produttori vitivinicoli italiani.
Sposato con Melissa, vive a Warwick, a circa un’ora da Manhattan e quando torna nella sua Puglia ama mangiare la pizza e ritrovarsi nelle strade di Bari, dove è cresciuto. Crede nell’American dream e nell’America. “Nonostante la crisi e la recessioni, questa è la terra delle opportunità”.
Dopo anni nella ristorazione come chef, sei rimasto nel settore food, ma in qualità di brand ambassador, consulente e imprenditore. Che cosa lega queste attività tra di loro?
Anche se gli obiettivi sembrano individuali perché legati a diversi progetti, in realtà lo scopo unico è quello di promuovere l’autenticità del Made in Italy, l’Italia con i suoi prodotti eccellenti, artigianali. Il lavoro che faccio come brand ambassador nel Consorzio è quello di mettere insieme le piccole e significative case vitivinicole presenti nel mercato americano per diffondere l’idea che ci sono vini importanti che meritano di essere conosciuti. La consulenza e la collaborazione con Terre Ducali, prima azienda italiana a essere stata autorizzata all’export dei salumi in USA, rientra nell’obiettivo di diffondere una certa qualità dei prodotti italiani, legati a concetti come artigianalità, tradizione. E poi c’è la mia start up, un progetto che ho fortemente voluto e su cui ho investito molto. Si tratta di importare i panzerotti pugliesi, che faccio produrre da un marchio privato italiano secondo la tradizionale ricetta, quella di mia nonna, e insieme a essi di promuovere l’idea di un prodotto che può essere finger food, snack, appetizer. Un prodotto nuovo che gli americani stanno iniziando ad apprezzare e conoscere. A tenere insieme il tutto, ripeto è il concetto di autenticità del Made in Italy.

Parlando di Made in Italy, cosa, secondo te, dovrebbe fare di più il governo italiano per promuoverlo e proteggerlo?
Credo che il Governo abbia fatto già abbastanza con le diverse iniziative mirate alla promozione, diffusione dei prodotti, sia aiutando le aziende a prendere parte alle fiere, sia con eventi mirati. Dovrebbe esserci più impegno affinché l’Italian sounding non danneggi la nostra economia e la qualità del Made in Italy. Ad esempio le piccole aziende che hanno difficoltà, in termini di costi, a entrare nel mercato americano, dovrebbero essere aiutate di più. Occorre fare informazione, sensibilizzare il consumatore americano, educarlo.
Come è cambiato il mercato americano in questi anni in rapporto al consumo e alla conoscenza dei prodotti alimentari italiani?
È cambiato molto perché gli americani viaggiano di più e si rendono conto della differenza tra la cucina italiana vera e quella italo-americana. Oggi i prodotti italiani sono più reperibili e c’è molta più informazione, ma anche su questo fronte bisogna sempre lavorare di più per promuovere, informare e rendere più consapevoli i consumatori americani.

Sul vino però l’Italia ha fatto un bel lavoro. Siamo in testa nel mercato americano e abbiamo superato i francesi.
Sono risultati che nascono da anni di promozione e di lavoro. Anche qui non bisogna fermarsi perché l’America è un grosso paese e molto competitivo. C’è sempre qualcuno pronto a superarti. Credo che ci siano ancora tanti vini e vitigni italiani che meritano di essere conosciuti oltreoceano e l’Italian Trade Agency dovrebbe supportare di più le piccole realtà aziendali che provano a entrare nel mercato americano.
Hai lasciato l’Italia perché non vedevi un futuro. Lo hai trovato in America?
Nonostante la recessione degli ultimi anni e la crisi, l’America rimane il paese delle grandi opportunità. È un paese dinamico dove le cose si fanno, accadono. E ci sono opportunità dietro l’angolo. Basta sapersi dare da fare, lavorare sodo, dimostrare grande passione, volontà e determinazione. Io in Italia vedevo tutto statico e senza possibilità di crescita futura anche in un settore come il mio. Si, l’American dream esiste ed è dentro di noi, tocca a noi volerlo realizzare.
E tu in linea con l’American dream sei diventato un imprenditore nel settore del food…
Quando sono arrivato negli Stati Uniti, i primi tre anni ho lavorato in alcuni ristoranti, trattorie di amici. Dopo anni passati nel settore della ristorazione sia come manager che come chef, mi sono reso conto che stare in cucina stanca. È un lavoro faticoso dove non hai tempo per te e per la tua famiglia. Ho deciso di scommettere sulla mia start up, Vemini Genuine Italian food, perché è un settore che conosco, un lavoro pieno di grandi stimoli, dinamico che sono sicuro mi darà ottimi risultati nel tempo.
La tua città, Bari, cosa hai lasciato e cosa ritrovi quando torni ogni volta?
Gli amici, la famiglia, le passeggiate, il mare. Il profumo del pesce e soprattutto la bontà della pizza, che a Bari si fa nel forno a legna.