“Non si sa mai dove si possono trovare gli italiani con sicurezza. Dipende da chi li cerca, quando e perché: io devo ammettere che li trovo sempre altrove. Forse si ha la necessità di un altrove per diventare italiani”. Così iniziava il primo articolo della mia rubrica Italica, ormai qualche tempo fa. Ripropongo questa citazione trovata casualmente su un forum, per iniziare nella rinnovata edizione de La Voce di New York. Lo faccio perché tutto gira intorno al tema dell’identità italiana, o meglio italica, come ci piace chiamarla, per distinguerla da quella che caratterizza la nostra cara Italia, intesa come Stato-nazione. Italica perché esce dai confini della penisola, è determinata culturalmente ma al tempo stesso ibrida e che paradossalmente fa cultura.
Sentirsi italiani all’estero, quindi. È un’esperienza che è stata vissuta da coloro che dall’Italia se ne andarono durante la grande emigrazione post-unitaria, in particolare negli Stati Uniti, come ci ha raccontato su queste pagine Vincenzo Pascale. Si scoprono italiani e mano a mano diventano italoamericani. Anche perché sono gli americani già là a farglielo notare.
Che cosa voglio dire? Che gli italoamericani incarnano un’etichetta attaccata addosso tipica dell’epoca moderna, definita dalla identificazione con gli Stati Nazione: tu eri di là, adesso sei qua, quindi non sei più di là e non sei totalmente di qua (scusate il gioco di parole, ma è indicativo di quello sdoppiamento). Un italoamericano, appunto, con trattino o senza. Ma in epoca postmoderna, quella della globalizzazione accelerata, dei new media, del consumo, delle identità liquide, esse non sono più definite così. Le identità, in un paese fortemente postmoderno come gli Stati Uniti, si costruiscono sempre più attraverso processi quasi da supermercato. Abbiamo a disposizione tanti strumenti, oggetti, esperienze per modificare, migliorare la nostra identità. Tutto dipende dai mezzi che abbiamo: economici, culturali, sociali. Cioè dal problema della scelta e della sua tirannia.
In un certo senso stiamo osservando la fine dell’italoamericanità e l’arrivo dell’italicità. Chi, ad esempio, ci racconta tutto questo? Due grandi del cinema: Robert De Niro e Leonardo DiCaprio, recente vincitore del Golden Globe e chissà se dell’Oscar. C’è una generazione tra loro, che racconta questo passaggio, fortemente alimentata dall’industria culturale e dai media. Robert De Niro è italoamericano, Leonardo DiCaprio no. È americano e a quanto mi risulta non viene chiamato italoamericano, ma potrebbe essere, e forse lo è, italico, come forte consumatore di cultura italiana in Italia e altrove. Lui stesso ha dichiarato di amare l’Italia e il cinema italiano. Sua madre, tedesca, lo chiamò così perché, amante di Leonardo da Vinci, sentì muoversi per la prima volta il bambino dentro di lei proprio mentre vedeva un dipinto del genio toscano. Robert De Niro è identificato nell’italoamericano, anche perché ha indossato i panni dell’italoamericano sullo schermo, quelli del mafioso soprattutto. Per DiCaprio non è stato lo stesso, se non in una breve scena di un film di Tarantino.
DiCaprio rappresenta l’oggi e può scegliere l’Italian way of life, se lo desidera. DiCaprio è affiliazione italica, De Niro è identificazione italoamericana. E non è il solo caso. Bill de Blasio, porta i figli in Italia, lui che è italoamericano, per italicizzarli, non per renderli italoamericani. Per far loro vedere che quel mondo è un’esperienza eccezionale.
Quello che vogliamo dire è che oggi le identità si muovono verso un piano differente, mettono in ballo dinamiche differenti, che non sono solo quelle del sangue, che piano piano possono sparire nel corso delle generazioni. Ma sono quelle delle possibilità di acquistarsi e scegliere un’identità per i suoi valori, attitudini, magari proprio quella italica, perché desiderabile, piacevole, intrigante, seducente, accattivante.
Lo so, forse questo potrà sembrare un po’ forte, un po’ oltre, e forse lo è…. ma non ci spaventa. L’italoamericanità noi la stiamo già salutando… Bye Bye.