“Non so se hai presente una puttana ottimista e di sinistra“. È un celebre verso di Disperato erotico stomp, canzone assai osannata e altrettanto criticata, autore Lucio Dalla. Il celebre cantautore bolognese è morto dieci anni fa, il 1° marzo 2012, stroncato da un infarto in albergo, all’indomani di un concerto a Montreux, Svizzera. Tre giorni dopo avrebbe compiuto 69 anni.
Bologna lo ricorderà con una grande mostra al Museo Archelogico– malgrado Dalla non sia proprio archeologia – e con altre iniziative. In questi giorni alcuni importanti giornali, in America e in Europa, stanno dedicando toccanti ricordi a un artista che è un pezzo di storia della musica, dal jazz al soul, al beat e al pop. Talentuoso, versatile, sperimentatore. Cinquant’anni di carriera, 581 canzoni, 22 album in studio e nove dal vivo, 38 milioni di copie vendute nel mondo solo con un commovente pezzo, Caruso, che nel 1986 illuminò un celebre tour negli Stati Uniti.

C’è un modo diverso e un po’ strano per ricordare Lucio Dalla e per conoscere meglio anche Bologna, la sua città: seguire le tracce dei tortellini e delle tagliatelle al ragù, ovvero dei ristoranti e delle osterie dove Dalla trascorreva notti infinite, raccogliendo idee, intuizioni, spunti geniali che spesso diventavano belle canzoni.

Quell’ammiccante signorina ottimista e di sinistra, ad esempio. Lucio la incontrò alle tre del mattino, uscendo da una trattoria bolognese della Cirenaica, zona di case popolari basse e rosse, nella prima periferia.
Anno 1977, Trattoria da Vito, via Musolesi. Che la canzone sia nata davvero da quell’incontro non è certo, ma di sicuro, anche grazie a Dalla e al suo amico-collega Francesco Guccini, quella trattoria è diventata un monumento, una Lourdes per vecchi nostalgici e per adoranti ragazzini in gita che continuano ad arrivare a frotte. Ed è ancora un monumento, nonostante la recente improvvisa morte di Paolo Pagani, figlio e continuatore del fondatore.
Da Vito si beveva (Dalla soprattutto acqua) si suonava e si giocava a carte fino alle prime luci del mattino. Si vedevano facce di ogni genere, Gianni Morandi e Fabrizio de André, poeti americani della Beat generation e terroristi di passaggio, attori, musicisti, star e aspiranti star. La trattoria era modesta e non pretendeva certo di essere ineccepibile. Romano, cameriere creativo, portava le mezze porzioni in piatti spaccati a metà e quando un cliente gli spiegò che dal tetto della veranda pioveva sul tavolo e sui tortellini, gli portò un ombrello.
La cucina non era indimenticabile, ma tutto il resto sì. Odore di vino e di brodo, chitarre meravigliose, celebri e sconosciute. E, soprattutto, un gusto di chiacchierare e di stare insieme che negli anni si è perso. Lucio teneva banco, discuteva di politica e di pallacanestro, perfino di religione, ed era sempre il più atteso. Tanti ragazzi erano da Vito tutte le sere, nella speranza di incontrarlo almeno una volta, di scambiare un saluto, magari anche di vincere la timidezza e chiedergli un autografo. Ma erano tanti, a Bologna, i palcoscenici delle serate di Lucio.
Alla Cesoia, un ristorante sempre affollato da ricchi medici e campioni dello sport, Dalla si faceva vedere ogni tanto, ma riusciva sempre a farsi preparare qualche sfizioso piatto a richiesta, fuori menù. Alla birreria Lamma spazzava via piatti di pasta e fagioli col regista Pupi Avati, jazzista come lui. All’Uvarol, una trattoria del centro che ha cambiato tanti nomi e altrettante gestioni, Lucio era sempre fra gli ultimi a salutare la compagnia, mai prima delle tre di notte.

Alla trattoria Angeli (un magico locale che, come Lamma, purtroppo non esiste più) i professoroni dell’Università pranzavano accanto a operai e imbianchini in tuta da lavoro. Lucio si fermava lì qualche volta quando andava alla Fonoprint, la sua sala di registrazione preferita, che era lì a due passi. E poi il mitico Dante in via Belvedere, tempio dell’alta cucina creato dal grande Dante Casari, e l’Antica Trattoria Romagnola di Tonino Amura, dove Lucio giocava a mettere in imbarazzo i vicini di tavolo, compreso il signor Buton (Filippo Sassoli) emettendo suoni animaleschi e fingendosi pazzo.

Un ristorante, più di altri, era una tappa fissa di Dalla e di un gruppetto di suoi fedelissimi complici. Si chiama Cesari. Via Carbonesi, pieno centro. Lasagne al forno e altri classici bolognesi, arrosti, ottimi tagli di carne, ma anche caviale e salmone affumicato. Cucina aperta fino alle 4 o alle 5 del mattino. Era un locale particolarmente apprezzato in quegli anni (fine Sessanta, fino agli Ottanta, ma è tuttora attivo). Ogni tanto spuntavano celebrità: Chet Baker, Marcello Mastroianni e Catherine Deneuve, Miles Davis.
A tavola Lucio non esagerava, anche perché per anni dovette combattere con una gastrite che divenne ulcera. Piatto preferito: prosciutto crudo. Con Lucio c’era regolarmente una variegata corte dei miracoli. Giovani e brillanti docenti universitari come Giorgio e Stefano Bonaga, avvocati e parolieri, imprenditori sempre in cerca dell’affare della vita, managers in decollo e altri ampiamente decollati. E c’era Umberto Righi, per tutti Tobia, che non era un fine intellettuale ma che Lucio considerava un insostituibile braccio destro: autista, assistente, tuttofare. A Cesari, Lucio rimase a lungo legato. Giocò perfino, con Gianni Morandi, in una squadra di calcio amatoriale che sulle maglie aveva la scritta ‘Sangiovese Cesari’, perché uno dei gestori del ristorante si mise a produrre vino, con grande successo.

Nelle rare puntate fuori città, Lucio scoprì un rifugio di grande fascino: la Locanda Solarola, nella campagna di Castelguelfo, non lontano da Bologna. È una magnifica villa di sapore provenzale, calda e accogliente, con un dedalo di salette dal soffitto basso che ti fa sentire protetto. Lo chef, in quegli anni, era un principe della grande cucina: Bruno Barbieri, celebre volto televisivo e recordman di stelle Michelin (complessivamente sette, in quattro locali). “Lucio prese l’abitudine di venire a trovarci – racconta Barbieri. Dormiva nella nostra locanda anche per molti giorni consecutivi. Credo che il luogo gli desse serenità. Prendeva appunti, probabilmente componeva qualcosa. Evidentemente si trovava a suo agio”.

Negli ultimi anni, verso ora di pranzo Lucio si faceva vedere spesso al ristorante di vicolo Colombina, a pochi metri da quella Piazza Maggiore che oggi qualcuno si è messo a chiamare Piazza Grande, in omaggio a una celebre canzone di Dalla del 1976 (quella dei “gatti che non han padrone come me“). La sua magnifica casa, in via D’Azeglio, dista appena pochi metri. La si riconosce dalla coda di turisti che spesso si allunga davanti all’ingresso, perché ormai la casa di Lucio è entrata nella hit parade dei monumenti più visitati di Bologna, della sua Bologna.