Con Antonello Colonna non si rischia la banalità. Non ci si annoia mai con i suoi piatti, intensi e veraci. Ci si annoia ancora meno chiacchierando con questo estroso e provocatorio geniaccio della cucina e della battuta caustica. Una volta, intervistandolo, gli chiesi quale fosse un suo cliente indimenticabile. Mi rispose con quella sua aria seriosa, che spesso nasconde un tranello o uno sberleffo: “Ernest Hemingway”. Rimasi perplesso, riflettei un attimo e gli replicai: “Scusi, ma quando Hemingway morì, a occhio e croce lei aveva quattro o cinque anni. È evidente che lei mi sta prendendo per i fondelli”. Risposta: “Esatto”. E perché si diverte a prendere in giro i giornalisti? Risposta: “È più forte di me. Quella domanda me la fanno spesso, e ogni volta rispondo Hemingway. Qualche food blogger mi prende sul serio e scrive pure quella fregnaccia nel suo sito. Anzi, nel suo blog, perché oggi purtroppo non ci sono quasi più i gourmet e gli esperti, ci sono i food blogger. E ormai non ci sono nemmeno i ristoratori. Ci mancano i Cipriani e i Maccioni”. Se poi gli chiedete quale sia l’ingrediente a cui non rinuncerebbe mai, otterrete un’altra risposta delle sue: “Il talento”.

Antonello Colonna è fatto così. Lo si ama oppure lo si manda a quel paese, senza vie di mezzo, prendere o lasciare. In questo caso è meglio prendere, anche perché la sua cucina (irrequieta, fantasiosa, concreta, con profonde radici nella tradizione romana) è una bella esperienza. Da sempre, i suoi piatti forti sono l’amatriciana, la carbonara, la panzanella. Ma non sono mai come ce li potremmo aspettare. “La mia è una cucina romana interpretata -spiega Colonna – È il più alto estratto della romanità. C’è estro e anche storia, perché è la memoria che vuole la sua parte, non l’occhio. Anzi, i miei piatti andrebbero assaggiati a occhi chiusi. Fanno risuscitare le nonne e le vecchie zie”.
Antonello Colonna è un ragazzo del ’56. “Come Miguel Bosè e Alain Ducasse”, precisa con un pizzico di civetteria. È nato a Labìco (vicino a Roma) ove è cresciuto nella trattoria di famiglia aperta dal bisnonno nel 1874. Esperienze a non finire: dall’apertura di ristoranti in Italia e all’estero (‘L’albero d’oro’, a New York, nacque nel 1987) ai programmi tv, non solo per la Rai. È stato chef della nazionale azzurra, di Alitalia e Ferrovie, della presidenza del consiglio dei ministri. Ha servito la regina d’Inghilterra e generazioni di politici, campioni del calcio e finanzieri di Wall Street.
Senza darsi troppe arie porta un cognome impegnativo. I Colonna sono una famiglia patrizia romana dalla storia millenaria, di cui lo chef non parla volentieri. Vi appartennero papi, cardinali, filosofi. “In fondo io sono un anarchico, aristocratico e snob”, confessa tra il serio e il giocoso, senza approfondire troppo.
Il cuoco divenuto imprenditore si fece notare nel 2007, quando aprì l’Open Colonna nel Palazzo delle Esposizioni di Roma, unico ristorante con stella Michelin all’interno di un museo italiano. Dal 2012 gestisce a Labìco un ampio resort (con ristorante stellato) che porta il suo nome. Oggi il suo locale di punta si è trasferito da Roma a Milano, in via Broletto: Colonna Open Milano. Ottanta coperti in sala e altri 60 all’aperto, preziosi in questi tempi di pandemia. Qualche mese fa il vulcanico chef ha inaugurato a Como un altro ristorante di grandi dimensioni, con oltre cento posti a sedere. A Roma gli rimane un bistró, aperto alla stazione Termini nel febbraio del 2019. I suoi menù sono porte girevoli in cui entrano ed escono idee, classicità, innovazione. Con l’approdo a Milano si sono aggiunti un notevole risotto e una costoletta di vitello con l’osso, cotta nel burro.

Altri cavalli di battaglia sono il petto di quaglia al foie-gras, i tortelli di genovese con provolone dolce, un ottimo piccione. Sono gusti profondi e classici, tradotti (in soluzioni moderne) ma mai traditi. Anche se, per la verità, un libro di Antonello Colonna ha un titolo inquietante: ‘Quaranta ricette fra tradizione e tradimento’. “Io tradisco da sempre – sorride lo chef – Ho tradito perfino mia madre, salendo sul treno della nouvelle cuisine. Dovevo farlo, perché quella era la rivoluzione. Poi ho tradito ancora, scendendo da quel treno. Ho tradito perfino lo strudel e i pizzoccheri, facendoli a modo mio. Ho un profondo rispetto per la tradizione, ma non mi sono mai negato il lusso di sperimentare. Il lusso che adoro è la ricerca, mica il caviale”.