Incontriamo la Chef stellata Cristina Bowerman, 52 anni, pugliese, una laurea in Legge, che ha lasciato l’Italia e si è trasferita in California. Dopo una laurea alla Culinary Arts e molta gavetta, decide di tornare in Italia. Una enorme opportunità le viene offerta dal Convivio dei fratelli Troiani nella Capitale e finalmente il sogno diventa realtà. Dalle cucine degli altri alla sua cucina: la Glass Hosteria 2004. E di qui un crescendo di riconoscimenti. Una stella Michelin, due forchette dal Gambero Rosso. Dal 2012 è anche alla guida della cucina di Romeo chef&baker a Roma, e nel 2013 è Chef donna dell’anno. Nel 2014 il libro per Mondadori Da Cerignola a San Francisco e ritorno, la mia vita da chef controcorrente. Ambasciatrice Telefono Rosa da quest’anno, ma anche Action Aid, Fiorano for kids, Food Act.
Il cibo un mezzo per un fine per veicolare un tuo messaggio. Vuoi parlarmi del tuo impegno sociale?
“Volentieri, l’impegno sociale è una cosa che mi sta estremamente a cuore e penso sia doveroso sfruttare la visibilità che noi Chef abbiamo acquisito per supportare iniziative utili. I temi a me cari sono tanti, innanzitutto quello della formazione, di cui, in particolare, mi occupo in quanto Presidente dell’Associazione Italiana Ambasciatori del Gusto. Proprio di recente abbiamo firmato un protocollo d’intesa con Re.Na.I.a., la Rete Nazionale degli Istituti Alberghieri, per l’ampliamento e il miglioramento dell’offerta formativa all’interno delle scuole. È un vero piacere dare il mio sostegno agli studenti e contribuire come posso al loro percorso. Questo è anche il motivo per cui da anni tengo delle giornate di lezione all’Università Bocconi di Milano. Se la mia esperienza può essere utile ai più giovani e se ho l’opportunità di dare qualche buon consiglio, ne sono felice. Inoltre, sostengo l’organizzazione ActionAid, aderisco alla campagna di raccolta fondi di Ristoranti contro la fame, sono tra i fondatori di FioranoForKids (iniziativa in favore della ricerca per i bambini che soffrono di epilessia) e, da febbraio 2018, sono ambasciatrice dell’Associazione Telefono Rosa, che supporta le donne in difficoltà. Insomma, ogni volta che posso dare una mano, mi metto a disposizione con piacere”.
Oggi hai un tuo stile che ami definire di cucina “contaminata”, ma inizialmente c’è stata più innovazione o più tradizione nel tuo modo di concepire il rapporto col cibo?
“Appartengo ad una famiglia di persone amanti del (buon) cibo e del mondo della gastronomia in generale. Dai miei nonni e da mio padre ho assorbito l’amore per le ricette della tradizione, e le cucine pugliese e italiana in genere fanno parte da sempre del mio DNA. Tuttavia, ho studiato da Chef negli Stati Uniti ed è lì che ho iniziato a fare questo lavoro: il periodo trascorso in America ha molto ampliato le mie vedute. Tra l’altro, sono una persona curiosa e, in questo, sono molto simile a mia madre, pugliese DOC, che però ha sempre amato provare piatti provenienti da ogni dove. Quando ero ragazzina, spesso ce li preparava anche in casa (cosa piuttosto insolita a Bari in quegli anni), quindi sono abituata da sempre a gustare sapori nuovi. In più, mi piace viaggiare, giocare con le tecniche e gli abbinamenti e fare mie ricette provenienti da Paesi lontani. Per questo amo definire “contaminata” la mia cucina, che affonda le sue radici nella tradizione ma tende sempre alla sperimentazione”.
Se dovessi raccontare ad una platea di giovani Chef internazionali la cucina italiana come la sintetizzeresti?
“L’Italia offre una varietà di ingredienti e di ricette difficilmente eguagliabile; in più, il nostro Paese è patria di produttori e aziende enogastronomiche di assoluta eccellenza. Peraltro, ogni Regione ha la sua storia, ha subito dominazioni ed influenze diverse, e questo inevitabilmente si traduce in un patrimonio enogastronomico enorme. Spesso le tradizioni cambiano da città a città, da una provincia all’altra E non dimentichiamo che, in materia di convivialità e di ospitalità, a noi italiani viene riconosciuta una tradizione che tutto il mondo ci invidia. Non credo sia possibile fare una sintesi di tutto questo, perché si rischierebbe di tagliare fuori una parte importante della nostra storia culinaria”.
Quale cucina sceglieresti se fossi tu a pagare il conto al ristorante? E al ristorante di quale tuo collega andresti a cena per location o per atmosfera o per fantasia in cucina?
“Non c’è una cucina in particolare che preferisco, me ne piacciono tante, oltre a quella – variegata – del nostro Paese: cinese, giapponese, messicana. Da anni comunque vivo a Roma e lì ho una serie di indirizzi di riferimento molto validi. Per esempio, amo molto la cucina romana e verace di Flavio De Maio (di Flavio al Velavevodetto), ma anche i piatti di pesce de La Baia, a Fregene (che tra l’altro è in una posizione invidiabile, proprio sulla spiaggia) e l’atmosfera sobria ed elegante di Per Me di Giulio Terrinoni. Apprezzo i piatti di Davide Del Duca (chef di Osteria Fernanda), legati al territorio ma con un tocco creativo. Infine, non posso non ricordare La Pergola di Heinz Beck, l’Imàgo, capitanato da Francesco Apreda, e Il Pagliaccio di Anthony Genovese”.
Siamo diplomatici. Ma quali i tuoi Chef preferiti e perché?
“È impossibile selezionarne solo alcuni. Mi vengono in mente tutti i grandi con cui ho lavorato, tra cui, solo per fare un paio di esempi, David Bull del Driskill Grill di Austin, Texas, e Angelo Troiani del Convivio di Roma; ma ci sono numerosi altri colleghi di livello assoluto, molti dei quali sono membri di Ambasciatori del Gusto: Carlo Cracco, Massimo Bottura, Antonia Klugmann, Marco Sacco, Rosanna Marziale, Antonino Cannavacciuolo, Enrico Bartolini, Andrea Berton e tanti, tanti altri, che insieme a me lavorano per valorizzare il patrimonio enogastronomico italiano nel mondo e per formare nuove generazioni di chef preparati e competenti”.
Vivere e lavorare negli Stati Uniti? E’ stata dura al primo impatto?
“Mi ricordo la sensazione di sorpresa, quasi sgomento, nel trovarmi per la prima volta così lontana da casa e dai miei affetti. Immediatamente sono stata colpita da come tutto negli USA sia grande, le strade, i locali, il paesaggio che appare sconfinato appena si esce dalle città e ci si addentra nella provincia. Il primo impatto con le persone è stato molto positivo, subito mi sono sembrati così sorridenti e gentili, anche se indaffarati nel loro lavoro. La cosa che più amo dell’America è la sensazione che ti trasmette di poter essere come vuoi e arrivare dove vuoi, a patto di metterci impegno e determinazione. Trovarmi immersa in quella realtà mi ha aperto la mente, eliminando definitivamente ogni preconcetto e consentendomi di vivere come desideravo. Anche per questo, quella che doveva essere una breve vacanza si è trasformata in una permanenza di sedici anni”.
La tua esperienza statunitense che valore aggiunto ha apportato alle tue conoscenze?
“È stata determinante per la mia crescita sia personale sia lavorativa. Lì ho scoperto il mio lato creativo lavorando come graphic designer, ho deciso di dedicarmi alla cucina in maniera professionale e mi sono laureata in Culinary Arts, nel 2004. Sempre negli U.S.A., ho avuto modo di scoprire tante cucine nuove, come quelle giapponese e messicana. Diciamo che ho fatto il percorso inverso rispetto a quello che si immaginerebbe per un cuoco italiano: mi sono formata come Chef all’estero – tra l’altro, in un Paese che normalmente non viene associato ad un’idea di cucina raffinata – e sono tornata a lavorare in Italia solo dopo alcuni anni”.