“La fotografia rende liberi, è espressione di libertà”. Sergio Siano, fotografo, figlio d’arte, napoletano, così definisce l’arte della fotografia. Fotografo del quotidiano Il Mattino, ha raccontato e continua a raccontare con passione la sua città. Vive in perfetta simbiosi con la fotocamera e le sue foto riescono a fissare quell’immagine che prende anima e corpo. Autore di numerose opere fotografiche, alcune con storiche firme del giornalismo italiano, propongono al lettore le tante facce di Napoli. “Quartieri Spagnoli” con Pietro Treccagnoli, “Vicoli, un viaggio Napoletano” e “Il mare che bagna Napoli”, la sua opera prima. “Con gli occhi di Caravaggio” è stato realizzato con Francesco de Core dove le immagini della vita reale dei vicoli di Napoli e quelle dei dipinti del grande artista si mescolano e si alternano restituendo una visione nuova della città. E poi il mito, Diego Armando Maradona: Siano nel suo ultimo libro in 160 scatti, quasi tutti inediti, racconta le imprese di Diego. Maradona lo ha seguito a bordo campo, in giro per la città rifuggendo da immagini folkloristiche: una narrazione fotografica pari a un film che esalta il “capopopolo napoletano”, quel Pibe de Oro che portò la squadra e la città verso una rinascita globale. Eccolo alla Voce di New York, nella sua Napoli che definisce “Specchio del mondo”.
Partiamo dal tuo terzo occhio, la macchina fotografica
“Essendo nato in una famiglia di fotoreporter era qualcosa che già mi apparteneva prima ancora che iniziassi a esercitare la professione. L’occhio sulla città, quello che racconto attraverso le immagini, è una città a 360 gradi. Significa il bello il brutto e soprattutto con dei risalti che riguardano soprattutto dei luoghi e delle memorie perdute o abbandonate. Le mie fotografie sono una condivisione di quello che poi io ho registrato, soprattutto verso chi non ha la possibilità di vivere la città in questo modo e quindi rapportarsi con la città fino in fondo”.
Hai definito Napoli “lo specchio del mondo”. Perché?
“Napoli è il riflesso del mondo perché tutto il mondo è stato qui e ci ha lasciato una sua identità. È questo che fa la differenza con altre città del Nord o del Sud. Essendoci passato tutto il mondo, tutti hanno lasciato una vera e propria identità, non solo con un semplice monumento ma anche con un modo di essere, di pensare, di parlare: la lingua napoletana è un insieme di parole francesi, spagnole addirittura arabe e anche molte ricette della cucina napoletana rappresentano la cucina del mondo. Per esempio la zuppa di carne cotta è un piatto povero napoletano, in realtà era araba. Gli arabi mangiavano tutto non buttavano niente, era anche un riflesso della povertà, e vengono fuori ricette che hanno 5-6 secoli di storia dove venivano riportate sulla tavola dei napoletani perché ha sempre convissuto con stranieri. I cinesi 2000 anni fa vivevano a Napoli, gli egiziani di cui conserviamo monumenti come la Statua del Nilo. Erano popoli diversi tra loro che in altre parti del mondo non riuscivano a vivere insieme: a Napoli sì. Napoli è l’unica città del mondo che non ha subito nessun tipo di persecuzione, pagani e cristiani vivevano insieme”.
Questo popolo vive una sorta di “divisione”, non c’è un senso di unità. Perché?
“La città divise in quartieri. Prendi Siena, si sfidano contrade contro contrade così un po’ ovunque. Quartieri diversi fatti dalle stesse persone mentre a Napoli c’erano in ogni quartiere comunità straniere diverse. Ancora oggi se si va al Cavone si trova un’alta densità di indiani e ci sono delle zone dove si trovano delle comunità dove probabilmente è anche un fatto naturale ma nello stesso tempo vai a vedere ci sono colonie che corrispondono a duemila anni fa. Da un lato Napoli continua a essere quella che è sempre stata, una capitale del mondo che non si è mai fermata nonostante catastrofi naturali, mentre le grandi capitali, penso ad Atene o Roma, hanno avuto momenti di buio totale. Napoli non ha mai smesso di vivere la sua dimensione”.
Andiamo ai tuoi libri, “Il mare che bagna Napoli”, un titolo che ci riporta alla grande denuncia di Annamaria Ortese…
“Il Mare che bagna Napoli è un parallelo che fiancheggia quel libro, eliminando la negazione, di Annamaria Ortese. Ho aggiunto che bagna Napoli: la sua denuncia forte, meravigliosa ed efficace che fece molto rumore, tant’è molti intellettuali napoletani non la perdonarono: lei raccontava la verità di un popolo che soffriva e che le canzoni non corrispondevano a quella che era la condizione reale dei napoletani. Era degradato ma purtroppo ancora oggi ci sono persone che vivono male e questo va denunciato senza puntare il dito ma cercando di dare il proprio contributo. Io lo faccio attraverso i libri senza nessuna pretesa. Ognuno di noi dovrebbe farlo invece il popolo tende ad addossare la colpa a qualcuno o a qualcosa e questo non porta a niente, è importante invece, se si tiene davvero alla città, dare un contributo a prescindere dal ruolo che occupa. Prendersi cura della città”.
Sei entrato nei vicoli, nei Monasteri, nel ventre di Napoli. Come sono i vicoli napoletani?
“I vicoli napoletani sono un riflesso storico a cominciare dalla toponomastica, dove se tu chiedevi, ti dicevano questa è la strada che porta a Santa Maria Ognibene, oppure era la strada dove c’erano i lattari, i carrozzieri. Molto spesso la toponomastica che io inserisco sempre come indicazione, è l’unica traccia storica di un luogo, oppure ricorda un personaggio che in quella strada ha vissuto. In “Vicoli” ho fatto l’esempio di Vicolo dei Sospiri a Chiaia, una strada che ricorda i condannati a morte come quella di Piazza Mercato. Mi incuriosì e mi chiesi perché a Chiaia c’era il vico dei sospiri. Era una zona di caserme, ci vivevano i militari e dove c’erano i soldati c’erano sempre le prostitute, basti pensare al vicoletto Belledonne, e vicino al vicoletto Belledonne c’è Vicolo dei Sospiri. Ecco che allora venni a conoscenza di fino una canzone che parlava di quei condannati a cui non veniva corrisposto l’amore, alcuni di questi si innamoravano di queste prostitute. Il nome di una strada ti fa così entrare in una storia, in una dimensione, ti emoziona e crea un rapporto con la città. Una città che ha bisogno soprattutto del cittadino che la vive, ci vogliono non dico misure repressive ma di dialogo. Sono convinto che se si inserisse la storia di Napoli nelle scuole, sarebbe un passo avanti, potrebbe maturare un naturale rispetto per la città”.
Con Vittorio del Tufo sul Il Mattino i racconti e le foto in “L’uovo di Virgilio”. Perché Virgilio?
“È una pagina che esce settimanalmente sul Mattino che parla di vari periodi, storie. E’ un appuntamento importante con il lettore che desidera conoscere questa città. Ci sono tante cose da scoprire ancora. L’Uovo di Virgilio secondo la leggenda, all’interno di quest’uovo dipendeva la sorte di questa città, un simbolo che significa tante cose e sicuramente è un patrimonio da custodire, memoria da recuperare e soprattutto da condividere. Virgilio è stato un personaggio fondamentale per questa città”.
Andiamo al meraviglioso libro “Con gli occhi di Caravaggio”.
“Attraverso Caravaggio si parla di Napoli, di quel periodo. In questo mio testo finale scrivo che quei luoghi, quel ‘600 a Napoli non è mai finito. Ho interpretato, mi sono immedesimato guardando i luoghi vissuti da Caravaggio provando a guardarli con i suoi occhi, con la sua sensibilità. E’ come se avessi fatto un viaggio nel tempo cominciando da quel periodo storico, da quella che poteva essere Napoli e ho avuto la netta sensazione che certe cose siano ancora fortemente attuali. Camminando tra i vicoli di Forcella, ad esempio. Quando lui è arrivato a Napoli, ha trovato una luce diversa, delle ombre diverse che non aveva mai potuto vedere prima. È stato fondamentale per i dipinti che ha lasciato all’umanità, alla pittura. Ha rivoluzionato la pittura. Ci ha lasciato quei volti, quando vidi per la prima volta le Sette opere di Misericordia, ho percepito che quelle persone erano vere, era una fotografia. Quelle persone erano napoletane, si vede nella gestualità, abituati a gesticolare con le espressioni per farsi capire dello straniero e questo lo si intuisce perfettamente nei dipinti del Caravaggio. È questa la grandezza. Ho sempre detto che Caravaggio è stato il primo fotoreporter della storia, lui si è attenuto alla verità”.
L’ultimo libro è dedicato a Maradona.
“La storia che riguarda la mia famiglia fondamentale per me e per la città erano anni in cui Napoli era appena uscita dal terremoto, non erano passati molti anni dal colera. Arriva questo calciatore, il più forte del mondo e cambia le sorti della città: da quel momento in poi cominciano a cambiare una serie di cose fino ad arrivare a prendere unica coscienza della città straordinaria. Vedi la Fondazione Napoli ‘99 di Mirella Barracco con cui ho avuto il privilegio di collaborare, un’esperienza importantissima perché le sue iniziative come Adotta un monumento, hanno segnato la rinascita della città. Penso a Bassolino, al G7. Ciampi scelse Napoli per il summit. Napoli ritorna capitale. Finalmente il centro storico comincia a cambiare volto. La città era allo sfascio, chiese chiuse, porte murate: era morta, sepolta. L’avvento di Maradona ha contribuito indirettamente, quando il Napoli cominciava a vincere, a diventare una squadra importante si è risvegliato qualcosa nel popolo, dilaniato dal terremoto e dalle guerre di camorra: si contavano 3- 4 omicidi al giorno”.
Quanto sangue hai visto?
“Tantissimo. Quando ho cominciato fotografo soprattutto omicidi, le proteste dei terremotati, le ruspe che abbattevano le costruzioni abusive. Il mio rifugio da tutto questo era il Napoli, la squadra, Maradona. Lui era il Capitano della squadra ma anche del popolo napoletano. Ho costruito un mio parallelo ricercando altro, uno spazio bello e positivo estrapolando dalle cose negative la bellezza”.
Ci sono dei luoghi che ti emozionano in maniera particolare?
“Le emozioni sono collegati ai ricordi soprattutto dell’infanzia o a persone che non ci sono più, come nei quartieri spagnoli dove sono nato e cresciuto, o la sanità dove ero residente, dove vivono le mie figlie. Il Pallonetto di Santa Lucia”.
L’avvento del digitale ha cambiato la fotografia?
“La fotografia fatta da un professionista è un conto ma ci vedo un fatto positivo perché oggi tutti fotografano, così facendo la fotografia non solo si è estesa ma è più compresa. Chi fotografa comincia a distinguere una foto con una messaggio preciso. Credo che questa estensione sia servito a dare forza e importanza alla fotografia”.