Metti una serata in pizzeria, una margherita con bufala condita con un filo d’olio extravergine d’oliva. O una macedonia e un bel tiramisù, possibilmente preparato con uova bio, da gustare con gli ospiti a fine cena, sorseggiando un vino frizzante. La parmigiana della domenica a casa di nonna e magari un salto al supermercato aperto h24 in cerca dell’ingrediente che manca, o un’insalata di riso come pranzo a sacco. Nel traffico del weekend, camion e tir s’inframmezzano fra utilitarie e suv, la radio parla della protesta dei pastori sardi e subito dopo annuncia la nuova fiction con quell’attore che recita in un siciliano farsesco: la solita mafia in tv, servita nel suo stereotipo più becero.
Nessuno ti dice però che dal vivo, le mafie, le hai probabilmente incrociate, finanziate, assaporate in un fine settimana di semilibertà sulle strade della Lombardia, pensandoti “al sicuro”.
Di agromafie si parla sempre troppo poco, in un Paese in cui pure il comparto alimentare è tutto, anche e specialmente in tempi di perdurante crisi, sociale ed economica. Per fortuna c’è il sesto Rapporto Agromafie presentato da Eurispes, Coldiretti e Osservatorio sulla criminalità nell’agroalimentare a ricordarci che truffe, manipolazioni e sfruttamento transitano, anzi galoppano, ora su gomma, ora tra gli scaffali, ora sulla nostra tavola, passando per le condizioni di agricoltori ridotti alla fame, braccianti fantasma preda del caporalato, animali ed ecosistemi devastati, marchi e certificazioni di qualità esposti alle insidie del web e del mercato globalizzato. Con rischi per i consumatori che interessano anche gli Stati Uniti, primo importatore extra Ue di agroalimentare italiano dove il fenomeno del cosiddetto Italian sounding è sempre in agguato, e con ricadute importanti sul prestigio e l’eccellenza del vero Made in Italy.
Quello delle agromafie, dati 2018, è un business da 24,5 miliardi di euro, cresciuto del 12,4% in un anno, raddoppiato rispetto al 2013: rappresenta il 10 percento del fatturato criminale in Italia. Ma a cosa ci si riferisce quando si parla di agromafie? Le attività illecite coinvolgono tutto il comparto agricolo e la filiera alimentare: la criminalità investe denaro sporco per controllare settori “puliti”, dalla ristorazione alla grande distribuzione sino al biologico. Immette inoltre nei circuiti illegali dell’import-export prodotti sottratti alle indicazioni di origine e tracciabilità, cui affianca business ormai consolidati quali il ciclo dei rifiuti, le zoo mafie, le energie pulite. E, complici le nuove tecnologie, la globalizzazione e il ruolo assunto dalla criminalità nel mondo della finanza, si può a ragion veduta parlare di mafia 3.0 come fenomeno quanto mai transnazionale.
Il business delle agromafie pare non risentire delle tensioni sul commercio mondiale, né delle barriere alla circolazione di merci e capitali. Sono 17,6 milioni i chili di cibo sequestrati nel solo 2018, anno che segna un +59% nel numero di reati commessi nel comparto rispetto al 2017, mentre si stima che lo scorso anno un italiano su cinque sia stato vittima di frodi alimentari.
Introducendo il nuovo rapporto a Roma, Coldiretti ha presentato anche “Il crimine nel piatto”: un menù selezionato di prodotti potenzialmente reperibili nei supermercati o al ristorante. Tra questi, mozzarella sbiancata con la soda e perossido di bezoile, pesce rinfrescato con il cafados, carne da macelli clandestini, miele “tagliato” con sciroppo di riso o di mais. Ancora, pane cotto con legna tossica, nocciole turche e banane dell’Ecuador prodotte dal lavoro minorile, tartufi cinesi spacciati per italiani e olio di semi dichiarato extravergine, ma colorato con la clorofilla. Esempi di sicuro impatto, che danno uno spaccato di un sistema criminale al quale è difficile rimanere estranei.
A cominciare dalle campagne: non si può parlare d’agromafie, senza riferirsi al caporalato, contro cui pure (finalmente) esiste una legge, la 199/2016. In cima al numero di denunce, troviamo i reati di favoreggiamento delle condizioni d’illegalità dello straniero, l’impiego di lavoro di stranieri privi del permesso di soggiorno e il reato d’intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Uno sfruttamento della manodopera diffuso su tutto il territorio nazionale, che vede nel ruolo dei caporali quasi esclusivamente cittadini italiani (l’80 percento dei denunciati) e nel settore più colpito proprio l’agricoltura.
Ma il caporalato non è solo cosa nostra. Quasi un prodotto agroalimentare su cinque che arriva in Italia dall’estero non rispetta le normative in materia di tutela dei lavoratori vigenti nel Belpaese, con casi tracciati in diversi Paesi Ue ed extra-Ue, come Vietnam, Germania, Spagna, Myanmar. Myanmar che peraltro di recente ha ottenuto agevolazioni per le esportazioni di riso in Europa (nonostante la brutale pulizia etnica del governo birmano contro i Rohingya) aumentando dell’800% le sue importazioni in Italia nel 2017.
Ma è l’intero paesaggio rurale a essere deturpato dalle mafie: l’abbandono delle zone campestri e l’eccessiva cementificazione di suolo fanno perdere oltre 400 milioni di euro alla produzione agricola, con danni all’economia e all’ambiente oltre che idrogeologici per cui è a rischio l’88 percento dei comuni italiani. Senza tenere conto dei terreni agricoli di cui, da Nord a Sud, le imprese criminali s’impadroniscono per interrarvi i rifiuti tossici: aree che in Italia hanno raggiunto un’estensione pari a quella del Friuli Venezia Giulia. Racket e furti di attrezzature, mezzi agricoli, gasolio, bestiame e prodotti causano, invece, danni stimati per 300 milioni di euro all’anno.
Dalla terra all’asfalto, si consolidano sempre più i legami tra mafie e sistema italiano degli autotrasporti: tali infiltrazioni, spiega il rapporto, incidono anche sulla dinamica dei prezzi del comparto ortofrutta che – dal campo alla tavola – possono anche arrivare a triplicare. L’agromafia esercita il suo potere nella gestione del settore anche attraverso il cosiddetto “triangolo dell’ortofrutta”: da Vittoria, provincia di Ragusa, vengono immesse nella filiera nazionale frutta e verdura che passano per il Mof di Fondi, snodo cruciale, e arrivano fino a Milano. Una triangolazione grazie alla quale un pomodoro ciliegino, una melanzana o un frutto può arrivare sulla tavola di un veneto o un romano, in maniera indistinta, come spiega il giornalista Paolo Borrometi nelle sue inchieste.
Si moltiplicano poi le frodi: fra i settori più colpiti quelli del vino (diversi i casi d’importazione di vino scadente adulterato con lo zucchero, la cui aggiunta è vietata in Italia), della carne (settore in cui addirittura raddoppiano), delle conserve e dello zucchero. Sotto accusa finiscono soprattutto i prodotti low cost, dietro ai quali si nascondono spesso ricette modificate, ingredienti di scarsa qualità o metodi di produzione illegale. Al contempo, a esser messa a dura prova è la salute dei cittadini, con più di un allarme alimentare al giorno registrato in Italia.
L’agromafia non risparmia la pasta, cibo italiano per antonomasia: il Belpaese non è primo solo nel suo consumo, ma anche il primo ad esportarla, assieme alle conserve di pomodoro. Eppure, ricorda il rapporto, nei supermercati un pacco di pasta su tre è ottenuto da grano non italiano. Gli agricoltori hanno visto crollare i prezzi di vendita della produzione del grano sulle piazze italiane, le cui quotazioni hanno subito una svalutazione, e i ricavi non compensano più i costi. In pericolo, circa 300 mila aziende agricole, specie al Sud, mentre ogni anno nei porti italiani sbarcano milioni di tonnellate di grano straniero che secondo gli agricoltori servono a innescare un meccanismo speculativo. Ne consegue che il prezzo non può più essere fissato dai coltivatori sulla base dei costi di produzione e delle rese, mentre concreti sono i rischi per la sicurezza derivanti dall’utilizzo di principi attivi vietati in Italia.
La commercializzazione dei prodotti è forse il nodo più difficile: la Grande Distribuzione Organizzata risulta particolarmente adatta al riciclaggio di denaro, producendo strozzature nella catena del prezzo. A tal proposito, Gian Maria Fara, presidente Eurispes, ha parlato dei pastori sardi in questi giorni sul piede di guerra: “Un litro di latte viene venduto nei supermercati a 2 euro al litro ma pagato ai produttori appena 60 centesimi. Mi chiedo quale differenza ci sia tra strangolare un pastore legalmente e costringere un imprenditore a pagare il pizzo alla mafia. Senza dimenticare che tali difficoltà incoraggiano e facilitano l’ingresso e il rilevamento di aziende e marchi da parte di “operatori” con forti disponibilità finanziarie, ma – per usare un eufemismo – di scarso appeal etico”.

Attualmente, attraverso la Gdo passa circa il 70% degli acquisti alimentari: gli aggregati societari che ne compongono le catene commerciali sono, mall, outlet, centri commerciali, catene di discount. La rarefazione pianificata dell’organizzazione è un’occasione utile per le mafie per nascondere aziende controllate da loro affiliati, riciclare denaro e allargare la propria rete d’interessi. Una penetrazione che non avrebbe risparmito gruppi societari tra i più noti al mondo, come Lidl, e che ha consentito all’imprenditore Giuseppe Grigoli, vicinissimo a Matteo Messina Denaro, di arrivare a fatturare 90 milioni di euro con il suo gruppo 6GDO e di acquistare il 10% della proprietà della Despar Italia, divenendo “il re dei supermercati”.
All’estero la mafia – e tutto quello che ruota intorno al suo immaginario – è a tutti gli effetti un marchio che genera un business da milioni di euro. Basta il nome. Così, il ristorante parigino Corleone di Lucia Riina, figlia dell’ex capo dei capi, è solo l’ultimo arrivato. In Spagna, La Mafia è una vera e propria catena, dove mangiare sotto i murales dei gangster più spietati, e dal Messico al Minnesota proliferano ristoranti e pizzerie Cosa Nostra.

“Mafia” arriva a rappresentare quasi un sinonimo di Made in Italy per i prodotti proposti all’estero, uno su tutti il cannolo, tanto che la tv pubblica norvegese, qualche mese fa, lo ha presentato come “Il dolce della mafia, i cannoli” veicolando un doppio stereotipo, come riflette il Rapporto Agromafie: da un lato, il cannolo come cibo tipico della mafia, dall’altro la Sicilia, se non l’Italia intera, come paese abitato da mafiosi. Iniziativa denigrante non isolata. In Bulgaria, ad esempio, si può bere il caffè Mafiozzo, negli Usa la salsa Wicked Cosa Nostra. Quanto al web, pullula di ricettari e spazi culinari a tema.
Marketing, ma non solo. Le nuove frontiere delle mafie e dell’universo che ne permette la proliferazione riguardano anche il falso biologico: nel 2017 l’Italia è risultata prima al mondo per la produzione bio. Un business in cui la criminalità si è tuffata a capofitto, spacciando per biologici prodotti agricoli privi dei requisiti produttivi previsti dalla normativa vigente. Strettamente connesse, le attività volte all’ottenimento fraudolento di finanziamenti europei per sostenere questa particolare produzione agricola, con mafie che si insinuano anche nelle produzioni localistiche d’eccellenza.
Le mire strategiche delle mafie sono infatti dirette a un comparto che non conosce battute d’arresto e che presenta enormi opportunità di crescita: nel 2017 il Made in Italy agroalimentare ha segnato un record storico nelle esportazioni, toccando quota 41 miliardi. Quasi i due terzi dell’export agroalimentare riguarda i Paesi Ue, Ma anche il Nord America – con Stati Uniti e Canada – rappresenta un incredibile mercato per l’Italian food, per un valore di 4,6 miliardi di euro. Un notevole incremento nel consumo di prodotti italiani si registra in Cina, Giappone e Russia, sebbene la globalizzazione dei mercati comporti rischi come il cosiddetto Italian sounding, ossia la produzione e commercializzazione di prodotti che “suonano” italiani, ma che non lo sono, in cui anche il packaging gioca un ruolo di primo piano traendo in inganno il consumatore. Incredibilmente, 2 prodotti su 3 in commercio sul mercato mondiale evocativi del Made in Italy in realtà non sono affatto italiani.
La pirateria agroalimentare, complici i principali siti di e-commerce, causa la perdita di 300 mila posti di lavoro. Sei prodotti su dieci immessi nel mercato mondiale risultano contraffatti e per l’agropirateria internazionale si stima un fatturato di oltre 100 miliardi di euro. Il settore maggiormente esposto alle contraffazioni? Quello dei prodotti caseari.
Come contrastare le agromafie e le loro mille propaggini? Strumenti e strategie non mancano, ma serve rafforzarli. Dal Codice Antimafia alla tecnologia blockchain, migliorie e applicazioni mirate sono necessarie e possibili.
Per il presidente di Coldiretti, Ettore Prandini, occorre che “tutti i prodotti che entrano nei confini nazionali ed europei rispettino gli stessi criteri, garantendo che dietro gli alimenti, italiani e stranieri, in vendita sugli scaffali o serviti al ristorante ci sia un analogo percorso di qualità che riguarda l’ambiente, il lavoro e la salute”. Va quindi “tolto in Italia il segreto sui flussi commerciali con l’indicazione delle aziende che importano materie prime dall’estero per consentire interventi mirati in situazioni di emergenza anche sanitaria”. Sottolinea come sia fondamentale, per agire, aggiornare una normativa “obsoleta e controproducente”, “essendo a tutto favore dei benefici (ingenti guadagni) il raffronto con i rischi (sanzioni per irregolarità)”. Un intervento decisivo del governo, secondo il Rapporto Agromafie, è inoltre prioritario per affrancare il comparto dai lacci della Gdo, in cui gli operatori sono spesso costretti a sottostare a condizioni che impongono la vendita al di sotto della normale soglia di profittabilità, pena l’esclusione dal mercato o il mancato ritiro dalla produzione.
Coldiretti, intanto, insieme a Campagna Amica, promuove la raccolta firme “Stop Cibo Falso” per chiedere all’Europa di rendere obbligatoria in etichetta l’origine degli alimenti, tutelando la salute dei cittadini e l’economia italiana da milioni di imitazioni. Passando ai nuovi strumenti a disposizione, un aiuto arriva dalla tecnologia blackchain, attraverso cui le aziende potranno ricorrere a etichette intelligenti legate alle spedizioni, con un numero identificativo univoco per ciascun lotto. Grazie a un codice QR e allo smartphone, i consumatori avranno tutte le informazioni utili, dall’azienda produttrice ai dettagli di lavorazione del prodotto.

Contro le insidie della piazza telematica è in prima linea l’Ispettorato Repressione Frodi (ICQRF) a tutela del Made in Italy, mentre è un progetto del Centro Ricerca Enea di Frascati un’app, SAL@CQO, che attraverso un potente laser a infrarossi permetterà di individuare sostanze nocive nei cibi.
Il Made in Italy non ha eguali nel mondo e, a dispetto degli innumerevoli tentativi di danneggiarlo e di riprodurne caratteristiche uniche e intrinseche al territorio stesso nel quale si sviluppa, continua a essere apprezzato nel mondo quale sinonimo di genuinità, attenzione per i dettagli e per la filiera, come dimostrano i primati tutti italiani nel comparto agroalimentare.
Il Belpaese è primo per biodiversità in Europa, vanta il sistema produttivo agricolo più green, con emissioni di gas serra notevolmente inferiori alla media europea, e la maggiore produzione biologica del Vecchio Continente. Può inoltre contare sul maggior numero di riconoscimenti Dop, Igp e Stg conferiti dall’Ue, con prodotti certificati sottoposti a controlli ancor più stringenti, che offrono ulteriori garanzie di sicurezza, tracciabilità e qualità. L’agroalimentare italiano è al primoposto in Ue anche in termini di valore aggiunto prodotto e alimenta nuova domanda nei paesi emergenti, soprattutto asiatici. Le sue esportazioni crescono di più rispetto a quelle del resto d’Europa: un valore riconosciuto che stimola la crescita occupazionale nel settore. Nel 2017 è cresciuto del 5,6 percento il numero di imprese agricole condotte da giovani con meno di 35 anni, arrivate a oltre 55 mila.
Insomma, a tutela di un pilastro quale l’agroalimentare italiano, bisogna mobilitarsi tutti. Fondamentale è l’impiego di nuove o più avanzate tecnologie e legislazioni nazionali e comunitarie per annientare le mafie sul loro stesso terreno. Che poi è il terreno di tutti quanti. Italiani per intero, a metà, o semplici sostenitori dell’Italian way.