Quando Howard Schultz atterrò a Milano per la prima volta nel 1983 da giovane imprenditore, mai si sarebbe immaginato di ritornarci da proprietario di un impero commerciale. Con oltre 24,000 caffetterie e più di 285,00 dipendenti in 75 Paesi diversi, Starbucks è oggi un punto di riferimento per americani ed europei, per residenti e turisti. I punti di forza della catena del caffè più famosa – e redditizia – al mondo sono evidenti: l’atmosfera rilassante e le poltrone comode, la rete wi-fi veloce che funziona sempre, le 30 miscele di caffè diverse tra cui scegliere e i prodotti di buona qualità. Starbucks ha conquistato presto tutti. Tutti, tranne gli italiani, che dovranno però imparare a convivere con chi, per trovare il successo, ha preso spunto proprio dalla loro cultura: l’inaugurazione della prima caffetteria Starbucks a Milano, infatti, è prevista nel 2018.
Già, ma Milano e l’Italia saranno pronti?
L’accoglienza riservata alle palme tropicali in Duomo, piantate proprio da Starbucks dopo essersi aggiudicata un regolare bando comunale, ci porterebbe a dire di no: le palme sono diventate prima un caso politico e poi vittime dei vandali . In realtà, se non fosse per il tifo da stadio, Starbucks e tradizione potrebbero provare a convivere. Anche perché senza il rispetto delle tradizioni, l’investimento del colosso americano potrebbe rivelarsi un fallimento e il primo a saperlo probabilmente è proprio Howard Schultz.
Nato nel 1953 in un quartiere popolare di Brooklyn da una famiglia umile, gli studi alla Northern Michigan University mantenuti con un prestito d’onore, Schultz ha fatto dell’imprenditoria la sua strada e di Starbucks, di cui sarà amministratore delegato ancora per poche settimane, la sua vita professionale. L’idea di trasformare quella caffetteria americana, fondata a Seattle nel 1971, in una catena mondiale di ispirazione italiana, scocca nel 1983, quando Schultz scopre il culto nostrano del caffè durante un viaggio di lavoro. Tutto ha inizio da lì. La proposta ai fondatori di Starbucks declinata, il tentativo di attrarre investitori con un nuovo progetto (Il Giornale), i fondi che arrivano a fatica. “Ho parlato con 242 persone e 217 mi hanno detto di no. È veramente sconfortante sentirsi dire così tante volte che la propria idea è qualcosa in cui non vale la pena di investire”, dirà Schultz in un’intervista qualche anno dopo.
Alla fine, Il Giornale rileverà Starbucks prendendone il nome. E i numeri ci dicono che l’idea della caffetteria internazionale all’italiana è stata premiata: dopo anni di strategie di marketing che vedevano l’investimento in Italia come un miraggio, Starbucks sbarcherà proprio nel Paese da cui tutto ha avuto inizio. Quello più difficile da convincere. Lo farà con un approccio che sarà insieme soft e strong. Soft, perché l’inaugurazione sarà oculata nei tempi e nei modi: non prima di giugno 2018, attraverso una joint venture con una famiglia di imprenditori italiani (i Percassi) e con la partnership di una catena già conosciuta a Milano (Princi). E con prezzi che, ha promesso Schultz, saranno più “italiani” che “americani”. L’iniziativa imprenditoriale però sarà anche strong, perché le cifre dell’investimento sono impressionanti: milioni di dollari per l’avvio, 350 posti di lavoro in Italia, cento di questi nella prima caffetteria a Milano, che sarà inaugurata nell’ex sede delle Poste in Piazza Cordusio. Una location esclusiva a due passi dal Duomo, una Reserve Roastery che, simile a quella pensata per Milano, si trova oggi solamente a Seattle. Un locale di 2400 metri quadrati che Schultz ha definito “una torrefazione elegante, una caffetteria che rispetterà la tradizione della location sulla quale sorgerà”.
Schultz è insomma certo: Starbucks funzionerà, anche perché la scelta sembra giusta per tempi e per località. In Cordusio sono infatti numerosi i bar ad avere chiuso i battenti nell’ultimo periodo e il rinnovamento urbanistico dell’area porterà all’inaugurazione di nuovi esercizi commerciali. Che Starbucks avrà successo, poi, lo pensano anche coloro che del caffè hanno fatto la loro vita: gli storici bar del centro di Milano. Bruno Degrandi, della Caffetteria Dante, si dice ad esempio certo: “Fino a qualche anno fa avrebbero fallito: questo però mi sembra il periodo storico migliore per il loro arrivo, l’hanno pensata bene. La generazione che sta crescendo – continua il titolare – oggi ama il caffè lungo, il beverone, così come l’idea di poterlo bere con calma in un bicchiere di plastica mentre cammina: a me e ai miei coetanei questo non è mai successo”. Sul come affrontare l’ondata Starbucks, Bruno è certo: “Monitorare come entreranno nel mercato, restare al passo coi tempi e non far mancare la qualità del prodotto di sempre”. Non solo Caffetteria Dante. Poco più in là c’è Il Campanile, altro bar presente da anni in via Orefici. Al bancone conosciamo Gheorge Chis, un ragazzone rumeno sorridente che lavora in Italia come dipendente da otto anni: Il Campanile ha già dovuto sopravvivere commercialmente all’arrivo di Arnold Coffee, catena che si ispira a Starbucks per caratteristiche e tipologia, e che si trova proprio lì a fianco. Gheorge ha due certezze. La prima, personale: “Supereremo anche questa, il nostro caffè italiano è sempre ricercato”. La seconda, commerciale: “Starbucks avrà successo: hanno tanti soldi e sono bravi a investirli, ma l’alternativa permetterà a tutti di rientrare nei costi”. Passeggiando verso il Castello Sforzesco, il mantra è sempre lo stesso, ripetutoci da tutti i titolari di bar a cui chiediamo del destino di Starbucks: “Ce la faranno”. E c’è anche chi, chiedendoci di mantenere l’anonimato, ci confida con franchezza: “Non parlo a nome del mio proprietario, ma posso assicurarvelo: saranno cavoli nostri”.
Se il prodotto Starbucks, secondo i diretti competitor del centro storico milanese, funzionerà, meno certi sono invece i bar situati poco fuori. Primo fra tutti Fiorano Maccabrini. Il suo locale, Primus Milano, è un grazioso bar nel cuore del quartiere Ticinese/Navigli, a due passi dalla Nuova Darsena. La sua avventura imprenditoriale, iniziata da qualche anno, sta avendo grande successo: è un compromesso accogliente tra uno Starbucks e un bar tradizionale, che sta replicando con un secondo locale in centro. “Sinceramente non sarei così ottimista sul loro successo: noi italiani siamo troppo legati alla tradizione del nostro caffè e abbiamo troppi clienti fidelizzati a quel genere prodotto”. Non solo, per Fiorano “la qualità dei prodotti di Starbucks è considerata medio-alta perché gli standard sono quelli europei. Per quelli italiani è però medio-bassa, e rimarranno delusi in tanti”.
Tra dubbi e aspettative, intanto, certo è che Howard Schultz ad aprile lascerà il ruolo di amministratore delegato di Starbucks a Kevin Johnson. Lo farà con i cantieri di Starbucks a Milano all’inizio del loro percorso urbanistico. Lo farà con impressi nella mente due dei suoi sogni più grandi: da un lato l’Italia e i destini della sua “creatura”, dall’altro, si dice con sempre più insistenza nei salotti buoni, con un occhio attento al mondo della politica statunitense.