La nuova tendenza del mondo gastronomico è la naturalezza di un prodotto e la sua specificità. Per questo il made in Italy non può che risultare vincente.
E la bandiera del tricolore sventola alta anche in questo 40° Winter Fancy Food Show che si è appena concluso al Moscone Centre di San Francisco. Una prova generale prima di approdare sul mercato della East Coast, dove il Fancy Food si tiene di solito tra fine giugno e inizio luglio.
Quasi 15.000 visitatori e 1.500 espositori di cui 70 italiani sotto l’ombrello dell’Italian Trade Commission (ICE) presente anche quest'anno a rappresentare il Belpaese.
Si affacciano nel mercato americano – non timidamente – le piccole aziende, mentre i grandi nomi sono già ben piazzati in una delle piazze più ambite, quella del Nord America. “Questo dimostra che non solo che c’è stato un ricambio ma che le altre hanno già consolidato la loro presenza”, commenta Pier Paolo Celeste, direttore dell’ICE di New York.
A rappresentare il tricolore del Belpaese, i prodotti che da sempre sono sinonimo di successo: pasta, pane, vino, formaggi, acque minerali. “Anche i dolci da forno stanno crescendo anche se, in questo settore, l’Italia è indietro rispetto a paesi come il Belgio, la Francia e la Germania”, continua Celeste.
Aspettando l’Expo 2015, il 2014 è stato un anno da ricordare per l’import dagli Stati Uniti. Lo confermano i dati dell’ICE relativi al periodo gennaio – novembre 2014: il settore agroalimentare ha riportato un aumento del 7 per cento rispetto allo scorso anno chiudendo il bilancio import a quota 4 miliardi.
A registrare un grande successo, le bollicine italiane che gli americani stanno imparando ad apprezzare e ad amare. Quel +32 per cento sul vino prosecco rappresenta la crescita di una tradizione che migliora sempre di più e che conquista un mercato aperto, curioso e amante del made in Italy. Ora lo possiamo dire non più a bassa voce: abbiamo superato i francesi, anche se il prosecco e lo champagne sono due prodotti completamente diversi.
Tante le novità di questo Winter Fancy Food 2015 che anticipa la versione estiva che si tiene ogni anno a New York. Le aziende italiane puntano a soddisfare il mercato americano che si presenta sempre curioso, aperto ai cambiamenti e sempre esigente. Allora il trend in salita su cui le imprese del Belpaese stanno puntando si rivolge ad un pubblico attento al biologico e al gluten free mentre oltreoceano giocano molto sulla sigla “natural”, “raw” e sui gusti che riflettono multiculturalità e contaminazione (chips all’olio di cocco, ad esempio) e la grande varietà. Gli americani osano, amano sperimentare negli ingredienti come nel packaging.
Per le aziende italiane misurarsi con questo mondo non è sempre facile. Pier Paolo Celeste ci ricorda che sono tre i fattori importanti che un’impresa del made in Italy enogastronomico deve tenere presenti per entrare negli USA: “Innanzitutto conoscere il mercato americano, le sue esigenze, i suoi cambiamenti. Non si può improvvisare. Adattare i prodotti alle esigenze del mercato nel packaging e shelf life e poi soprattutto essere pronti ad un investimento. Oggi le aziende non possono pensare di affidare le loro produzioni ad un agente ma hanno bisogno di un brand ambassador che sposi in toto la filosofia dell’azienda e la storia”.
Fare sistema può essere una soluzione? “Dipende dal prodotto, continua Celeste. Non è sempre necessario, anche se aiuta ad abbassare i costi”.
Ora l’attesa è tutta sul trattato TTIP su scambi e investimenti USA-Europa che dovrebbe, si spera, perfezionarsi entro il 2016 e che avvantaggerebbe le imprese italiane perché mira ad abbattere le tariffe doganali, ridurre le barriere tariffarie e la certificazione doppia.
Nell’attesa, l’Italia combatte all’estero un fenomeno che prende sempre più piede: l'Italian sounding. “La nostra battaglia all’ICE – continua Celeste – mira ogni giorno a difendere e tutelare un patrimonio millenario che ha fatto la storia del made in Italy. Per questo abbiamo lanciato delle campagne di sensibilizzazione e informazione che tutelano il consumatore e lo informano sulla qualità del prodotto. Insieme a questo, da qualche anno, abbiamo attivato un desk a servizio delle aziende che supporta le pratiche legali e la documentazione”.
Tra tutti, il prodotto che più di ogni altro è vittima di contraffazioni e imitazioni è il famoso parmigiano che, come spiega Celeste, si trova sui mercati esteri in tante varianti “dal Parmesean al Parmesano”.
Sul vino non ci sono dubbi: l’Italia vince. Una bottiglia su tre di vino da tavola è italiana, secondo il direttore dell’ICE. “Parliamo di vino che va dagli 8 ai 10 euro – spiega – ma anche gli altri vanno bene e sono in crescita. Gli americani non si sono fermati solo ai grandi classici come il Chianti e il Barolo, ma si sono dimostrati curiosi e apprezzano vini del Sud come i vini siciliani, pugliesi e campani”.
Al mondo del vino del Sud è infatti dedicata la prossima manifestazione organizzata dall’ICE che si terrà a New York dall’1 al 5 febbraio e che metterà in mostra, con una serie di workshop, incontri e soprattutto oltre 1.000 etichette del Sud Italia.
Dall’America non hanno dubbi: il made in Italy è vincente. Richard Armanino, direttore delle vendite e degli acquisti di Italfoods, una delle più grandi aziende americane di import dall’Italia, con base a San Francisco, ci racconta che è un momento d’oro per il cibo italiano oltreoceano.
Italfoods è stata fondata dal marchigiano Walter Guerra, nel 1978, pensando al mercato californiano e alla West Coast in generale. Walter, che ha lasciato negli anni sessanta le Marche per il suo sogno americano, aveva già capito allora, con lungimiranza, che il made in Italy sarebbe cresciuto e si sarebbe evoluto negli Stati Uniti. “A dispetto della crisi in Italia – commenta Armanino – il nostro business non ha sofferto della chiusura di molte piccole imprese italiane. Anzi, per molti di loro, l’export ha rappresentato la via d’uscita”.

Richard Armanino, direttore delle vendite e degli acquisti di Italfoods
Italfoods si rivolge sia ai negozi di fine gourmet sia alla ristorazione e al catering e nella scelta dei prodotti italiani da proporre ai propri clienti applica un criterio molto particolare: “Ci interessano soprattuto le storie delle persone che stanno dietro ai prodotti – continua Richard Armanino – non i grandi brand ma le piccole realtà artigianali che hanno una tradizione e una storia da raccontare. Io vado personalmente in Italia a conoscere i produttori che poi lavoreranno con noi, chiedo loro perché vogliono entrare nel mercato americano, di quali tradizioni si fanno portatori. Il nostro compito non è solo quello di importare e di vendere ma di promuovere il made in Italy e la regionalità dei prodotti, combattendo l’Italian sounding. Ci facciamo promotori di una serie di iniziative che educano il consumatore, lo rendono consapevole nella scelta di quello che devono comprare. La contraffazione alla fine trova il suo terreno fertile se il consumatore non conosce e non sa la differenza tra due prodotti della stessa categoria. Noi, che crediamo nell’italianità al 100 per cento, abbiamo scelto di rappresentare tutta l’Italia da Bolzano a Ragusa. Sta nella regionalità, la chiave del successo dei prodotti italiani”.
Ad Armanino chiediamo di spiegarci quali sono le peculiarità dei consumatori nella West Coast e come si è evoluto il mercato americano in questi anni. “I californiani di San Francisco e del Nord della California sono diversi da quelli del Sud della California e di Los Angeles. A San Francisco e in tutta la Bay Area sono esigenti sui criteri legati alla nutrizione, attenti al biologico e a molte sigle che contengono la parola “free”. Negli anni il mercato e le scelte sono cambiate moltissimo. In testa rimangono ancora prodotti come olio, pasta, acque minerali, vino, farine per pizza ma i nuovi trend sono i legumi tipici di un territorio specifico (ceci neri, farro), come l’Umbria. Hanno perso appeal i pomodori secchi e guadagnato un forte mercato i funghi porcini che negli anni ottanta non erano conosciuti. Aumenta l’interesse per i prodotti gourmet ma rimane difficile piazzare i prodotti da forno italiani”.
Tenuto conto delle evoluzioni negli stili di consumo e nei gusti, l'investimento sul mercato americano finisce comunque per ripagare: “Scommettere sul mercato americano – conclude Richard – non è facile ma è una sfida che porta ad un grosso successo. Gli americani amano il cibo italiano. La loro curiosità verso il made in Italy è sempre in crescita”.
E che il mercato americano è un trampolino di lancio per il resto del mondo lo sa bene anche la famiglia Asaro, siciliani di Castelvetrano che con la United Olive Oil company sono arrivati oggi alla quarta generazione. Presenti da quasi cento anni nel mercato americano, sono partiti da zero e sono cresciuti del 60 per cento. La loro produzione è totalmente in Sicilia e mentre il loro catalogo si è arricchito con prodotti come olio, olive, tonno e bibite, si è ampliato anche il loro mercato guardando all’Oriente: Giappone e Cina in testa.
Tommaso Asero, al timone della quarta generazione, divide la sua vita tra la sede di Brooklyn e Castelvetrano e, se ammette che la sua azienda è cresciuta molto in Nord America, riconosce anche che “questo mercato è ormai saturo”.
Sullo scandalo dell’olio d'oliva di cui lo scorso anno parlò il New York Times (per poi dover parzialmente smentire i dati utilizzati, ndr) Asero dice: “Il consumatore americano si è svegliato finalmente e di sicuro Internet aiuta molto ad identificare le aziende reali da quelle fake. I consumatori americani sono più consapevoli della qualità”. A proposito dell’annus horribilis dell’olio, Tommaso Asero tira un sospiro di sollievo: “Per fortuna, la nostra area è stata affetta in minima parte da questa grave crisi produttiva”.
Un’altra storia dal Sud ce la raccontano Angelo e Franco, che sono arrivati qualche anno fa da Bagnoli per sbarcare a Los Angeles. Depositari di una tradizione storica, Angelo e Franco si sono messi a fare la ricotta e la mozzarella a Los Angeles con latte che viene rigorosamente dalla Campania. Hanno studiato il modo per riprodurre la freschezza dei formaggi campani, come la burrata, senza compromessi. Ci hanno creduto e ora, dalla loro sede di Los Angeles , servono ristoranti e negozi della West Coast e non solo.

Nicola Fiasconaro e il suo panettone made in Sicily
Chi ormai è presente da vent’anni nel mercato americano con una presenza consolidata è l’azienda Fiasconaro di Castelbuono. Famosa in tutto il mondo per i panettoni fatti in Sicilia, l’azienda Fiasconaro si fa portavoce di una tradizione che vuole tutelare il born in Sicily. Per questo, Nicola, il maestro pasticciere che insieme ai fratelli gestisce l’azienda, ha creato il “panettone terrone”, facendo da apripista ad una tendenza ormai in voga in Italia. Questo significa tradizione meneghina e piemontese nella lievitazione, ma ingredienti siciliani come il pistacchio di Bronte, le mandorle di Avola, uva zibibbo e marsala, grani siciliani.
La Fiasconaro da brand di famiglia si è trasformata in un brand del territorio, quello delle Madonie, dove sono nati e dove operano, e quello siciliano in generale. “Abbiamo educato gli americani alla stagionalità del panettone, insegnando loro a consumarlo entro Natale per avere una freschezza e una naturalezza garantita”, dice Nicola Fiasconaro.
Se il loro incremento nel mercato americano è segnato ogni anno dal segno più (la campagna 2014 si è chiusa nella West Coast con un 15% di incremento), la loro campagna di espansione sta guardando al Medio Oriente, soprattutto al Qatar.
“L’obiettivo – conclude Nicola – è di diffondere la cultura del made in Italy in tutto il mondo, anche dove dal punto di vista culinario sembra difficile. Per fare questo bisogna parlare di storia del territorio, di tracciabilità dei prodotti e di tradizioni”.
Per tutti il prossimo appuntamento è a Milano, dove a Maggio si taglierà il nastro dell’Expo 2015, dedicata ad un tema globale di grande importanza: Feeding the Planet, Energy for Life.