Salumi e formaggi accompagnati da bruschetta e gustosi sott’olio, una garanzia per iniziare; un piatto di pasta al pomodoro con una sformaggiata di pecorino, per ricordarti il sapore di casa; un panino con la porchetta, che ci sta sempre bene, magari con un dressing dall’aria nuova, che profuma d’orientale; un dolce per far gioire il palato, per poi chiudere con un caffè, rigorosamente napoletano, e un ammazza caffè ossessionato dal potere, rigorosamente calabrese. Al Summer Fancy Food di New York, la più vasta fiera del Nord America dedicata alle specialità alimentari, l’Italia fa la sua figura. Sia perché i prodotti in sé sono una garanzia sia perché chi li’ha portati da questa parte dell'Atlantico ha piani di business ben precisi e seri alle spalle e si muove su un mercato che al momento è molto più allettante di quello italiano. Parole d’ordine per restare a galla: tradizione e innovazione, un mix così banale, ma così difficile da perseguire che ha finito per diventare una spada di Damocle in una selezione naturale che ha eliminato i più deboli, i meno convinti e i poco preparati.
A detta degli espositori con cui abbiamo parlato, la fiera è più dinamica rispetto al passato e il pubblico più sensibilizzato, fa domande precise ed è più consapevole su concetti che fino a poco fa ignorava, come la qualità di un cibo o la provenienza della materia prima con cui viene fatto. C’è chi è arrivato da poco e chi invece è presente sul mercato americano da più tempo, chi arriva con gli stessi abiti con cui è partito e chi invece si è cambiato o prima di arrivare o una volta arrivato, magari mescolandosi ai locali e adattandosi a un pubblico dalle preferenze diverse da quelle dei connazionali.
Lidia Bastianich in visita allo stand di Monini
Tra chi racconta c’è anche Monini (che de La VOCE è stato uno dei primi business partner), presente al Fancy Food da ben 15 anni e per questa edizione accoppiato con Mutti, colosso dei pelati e della passata di pomodoro, per un’unione che, si spera, farà la forza. Del resto i prodotti sono complementari e per questo spesso percorrono gli stessi canali nella distribuzione; sarebbe poco strategico non collaborare. “Il consumatore sta iniziando a fare acquisti più consapevoli – ci spiega Marco Petrini, Presidente per il Nord America di Monini – e noi rispondiamo mantenendo quel posizionamento di mercato scelto alle origini della nostra azienda per il quale oggi veniamo premiati: la qualità”. Con la consapevolezza che hanno anche tanti altri produttori di olio che comunque attraversano l’oceano e si conquistano la loro fetta di mercato, Monini non rinuncerebbe mai ai capisaldi che l’hanno fatto arrivare dove è arrivato oggi, e a chi gli propone di cambiare il logo (“svecchiamo, facciamo una cosa più fresca, etc…”), l’azienda risponde che nessuna immagine può rendere meglio l’idea di una mano che spreme le olive. Come dargli torto!
Lo stand di Monini e Mutti
Tradizione e innovazione, dicevamo, e anche sull’olio, per quanto a noi italiani piaccia in purezza, non mancano le novità con cui chi produce punta ad allargare quella fetta di mercato conquistata. Monini, per esempio, ha proposto in fiera una selezione di oli aromatizzati al lime o ai frutti rossi, Costa d’Oro è arrivato a New York con bottiglie di Olio Integrale (“L’olio non filtrato, che viene imbottigliato così come esce dal frantoio”), un’innovazione che guarda al passato e si “rimedia” in un modo tanto semplice quanto originale, e c’è anche chi alla garanzia ha voluto mettere i sigilli, brevettando una bottiglia dotata di “tappo antiriempimento”, per evitare che ciò che viene venduto possa essere contaminato da chi della qualità se ne frega e pensa solo al business. “Offriamo la garanzia di una qualità non manomessa – ci spiega il patron di Redoro, Daniele Salvagno – il tappo consente la fuoriuscita dell’olio, ma non l’immissione di liquidi verso l’interno”.

Lo chef John Stephano tra Gino e Stefano Toschi, davanti allo stand di Toschi Balsoy
Tanto olio, ma anche tanto aceto, altro prodotto di cui la tradizione italiana può andare fiera. E qua, tra le numerose boccette da centellinare sui cibi, c’è anche chi ha pensato di reinventare quello balsamico, adattandosi alle contaminazioni e preferendo il fusion. È la storia di Balsoy, un prodotto che per il momento non vedremo sulle tavole italiane, fatto per metà di aceto balsamico e per metà di salsa di soia. Ce lo racconta Stefano Toschi, della Toschi che conosciamo per gli sciroppi e le ciliegine: “Anni fa è venuto da me mio fratello e mi ha fatto assaggiare questa salsina: all’inizio ho pensato Ma che è questa roba?, poi però il mix mi ha colpito e abbiamo voluto migliorarne i dosaggi per poi arrivare a questo risultato”. Ci conferma lo chef John Stephano, Direttore Marketing di Atalanta, importante società importatrice e distributrice di prodotti alimentari internazionali negli Stati Uniti: "Quello che Toschi ha fatto è tipico del genio italiano. Noi chef già usavamo il mix di aceto balsamico e soya ma spesso sbagliavamo le dosi. Toschi finalmente ha reso affidabile quello che ci serviva". "Sembra proprio che l’operazione sia riuscita. Balsoy, garantisce Toschi, sta bene un po’ con tutto, alla stregua dell’aceto balsamico e della soia, ma “Asian inside, Italian all around” (questo lo slogan scelto per la penetrazione sul mercato americano, di sicuro più abituato di quello italiano alla contaminazione in cucina).
Tanta pasta, tanta mozzarella di bufala, tanto parmigiano, tanti vini, ma anche tanto caffè, tanti liquori (limoncello Pollini e Amaro del Capo: una delizia per il palato) e tanti dolci: i capisaldi della cucina italiana si dividono tra chi persegue la stessa strategia di una vita, puntando su precisi valori di riferimento a prescindere dal mercato di riferimento (“Magari è una strada che garantisce una penetrazione più lenta, ma che alla fine premia la filosofia aziendale e quindi il prodotto”, spiegano alcuni) e chi, invece, approfitta dell’espatrio per rinnovarsi e trovare nuove vesti e se magari lo fa scegliendo una città come New York, perennemente in mutazione, quale migliore opportunità per ampliare vedute e obiettivi?

I prodotti dell’azienda Sapori dell’Antica Murgia
Nel connubio tra tradizione e innovazione, si piazza anche Sapori dell'Antica Murgia, un'azienda a conduzione familiare che nasce del cuore della Puglia e che è arrivata al Fancy Food con le Delizie di Ricotta, una selezione di prodotti a base di ricotta infornata, arricchiti da gustose fragranze: una perfetta rielaborazione di un'antica ricetta della tradizione gastronomica pugliese che può essere apprezzata sia con i dolci che con i salati.
Molte le aziende che hanno approfittato della vetrina del Fancy Food per affacciarsi sul mercato americano con nuovi prodotti. Tra queste c'è Tomarchio che porta negli USA una linea di bibite che declinala qualità italiana per i palati americani. Soda, chinotto e ginger, il tutto a base di acqua delle falde dell'Etna, arance rosse Sanguinello delle piane di Catania e Limone Femminello. L'azienda, nata in Sicilia nel 1920, ha deciso che era ora di portare fuori i suoi prodotti e punta sull'attenzione agli ingredienti oltre che su una comunicazione che enfatizza le qualità del prodotto. Anche acqua Sant'Anna quest'anno è arrivata con una novità: la prima bottiglia totalmente compostabile che in 80 giorni si biodegrada completamente, realizzata senza neppure una goccia di petrolio: per bere bene senza sensi di colpa per l'impatto ambientale della plastica.

La nuova linea di prodotti di Villa Reale
Sempre dalla Sicilia arriva Villa Reale che, presente nella grande distribuzione americana da 15 anni, quest'anno ha realizzato una nuova linea dal packaging accattivante e dal gusto assicurato: barattolini di salse e condimenti che, rielaborando le antiche ricette siciliane, accostano sapori in modo inedito e si presentano in una elegante confezione regalo. “Vogliamo che i nostri prodotti siano espressione della migliore italianità, anche nel design – ci dice Paolo Licata, amministratore della società – E poi valorizziamo i prodotti locali utilizzando, per esempio, presidi Slow Food come il cioccolato di Modica, il pistacchio di Bronte e le cipolle di Giarratana”.
Ma se alcuni hano capito e valorizzato l'importanza del design e dell'immagine per vendere su questo mercato, non tutte le aziende italiane si sono accorte che anche l'occhio vuole la sua parte. Nessuno mette in dubbio la qualità degli alimenti che il nostro Paese è in grado di offrire, ma sono poche le aziende e i marchi che pensano all'immagine e al marketing con cui questi prodotti potrebbero essere spinti sui mercati. Fattori non secondari in un mercato come quello americano in cui il settore del food si presenta spesso con un'immagine trendy e accattivante e dove saper proporre un prodotto rinnovato sulla base delle esigenze di un consumatore "altro" potrebbe fare la differenza. Stefano Barbiero, un importatore che da anni opera sui mercati americani promuovendo vari tipi di marchi, ci spiega che marketing e innovazione di prodotto sono spesso appannaggio di pochi: “Molti di questi marchi hanno lo stesso packaging di dieci anni fa, non si rendono conto che qui si vende con l'immagine” dice.
Un ragionamento che da Urbani sembrano aver invece ben assimilato. D'altra parte l'azienda umbra produttrice di tartufi è sbarcata in America già nel 1850. Abbastanza per imparare a conoscere e farsi conoscere in questo mercato con un prodotto che non è dei più semplici. “Al tempo in cui mio bisnonno mandò suo fratello negli USA per iniziare a esportare il tartufo – ci dice Olga Urbani – gli americani quando sentivano la parola truffle pensavano al cioccolato. Lo raccontava proprio il fratello del mio bisnonno nelle sue lettere. Ma decisero di insistere e ora… non voglio prendermi meriti, ma il tartufo è conosciuto e richiestisssimo. La gente inizia a mostrare interesse e i nostri prodotti non sono più solo per pochi eletti, ma sono presenti nelle grandi catene”. Una storia che quest'anno ha portato l'azienda a concepire una nuova linea appositamente per i mercato USA: salse e topping tipicamente americani, come mostarda, ketchup e salsa barbecue, ma con un tocco di tartufo. “Stanno avendo un grande successo e alla fine li stiamo vendendo anche in Italia perché piacciono molto e anche da noi le salse stanno iniziando a diffondersi”. E poi un'innovazione nata per quel cibo tanto di moda che mette d'accordo il gusto di americani, italiani e asiatici: il sushi. Urbani ha inventato un bastoncino di tartufo fresco da inserire nei roll che sta spopolando nei ristoranti.

LÔÇÖapertura dei sofiTM Awards
L'Italia al Fancy Food è dovunque. Non soltanto nell'area coordinata dall'Italian Trade Agency che riunisce, su due livelli, ben 350 aziende, ma anche sparpagliata tra i vari padiglioni del salone dove il made in Italy si affaccia tra un made in England e un made in Brasil, senza mai sfigurare. E così il tour dell’Italia al Fancy Food continua tra un cannolo, un limoncello, una fetta di prosciutto e una fetta di panettone (già, c’era anche chi negli States ha pensato di portare pandori e panettoni, in barba a tutti i maestri del dolciume che ci sono qua!). Poi arriva il momento delle premiazioni: aziende di tutto il mondo in gara per il sofiTM Awards (sofi sta per specialty outstanding food innovation), l’Oscar del cibo all’insegna del “craft, care and joy”. Trentadue le categorie in cui è stata suddivisa l’industria alimentare, altrettanti i premi che sono stati assegnati dal celebre pasticcere Dominique Ansel; il premio per la categoria New Product è andato alla newyorchese East Hampton Gourmet Food che, tanto per tornare al connubio tra tradizione e innovazione, ha concorso con un pane croccante, nulla di più antico, a base di lenticchie, riso, sesamo e sale rosa. Otto i nomi italiani tra quelli in gara (nove le nomination: l'azienda Felicetti, produttore di pasta trentino ha ottenuto due candidature), non male come traguardo per il nostro Paese, ma del resto sarebbe stato strano il contrario: almeno sul cibo possiamo stare tranquilli.
Discussion about this post