Qualche tempo fa il mio figlio minore che ha quindici anni, dopo aver visto una puntata del programma televisivo Masterchef, mi ha domandato: “Papà, ma qual è lo chef romano più famoso?”. Ci ho pensato un po’ e subito la mente è andata indietro nel tempo, a ricordare i grandi cuochi della mia città, quelli assolutamente poco famosi, quelli che avevo conosciuto io, nella mia gioventù.
Il primo a cui ho pensato si chiamava Antonio e lavorava a Testaccio al ristorante Turiddu, che stava proprio davanti al Mattatoio. Io e i miei amici andavano lì il sabato sera a mangiare i rigatoni con la pajata, una cosa buonissima che oggi però è stata assolutamente vietata. La pajata, per chi non lo sapesse, è l’intestino tenue del vitello da latte. La ricetta originale vuole che l’intestino venga lavato, ma non privato del chimo, la sostanza lattiginosa che contiene, in modo tale che, una volta cucinato, possa dar forma ad una salsa di sapore acre e forte, normalmente ottenuta utilizzando anche pomodoro. Leggenda narra che il piatto sia stato inventato nel passato proprio dai cuochi a cui i proprietari regalavano gli scarti poco apprezzati della carne e che, quando tornavano a casa, ci preparavano il sugo per tutta la loro famiglia. Certe volte Antonio ci regalava un altro piatto che lui aveva soprannominato Padellotto, anch’esso oggi stra-vietato. Era fatto con i testicoli ed il pene del vitello oppure del bue, che venivano arrostiti in padella. Era una cosa buonissima ma, vi assicuro, la prima volta che li ho mangiati nessuno mi aveva detto che cos’erano e poi ho provato davvero un po’ d’imbarazzo.
Il secondo grande cuoco che ho ricordato si chiamava invece Mario, detto Marione, e lavorava nel ristorante omonimo che si trovava in piazza delle Coppelle, vicino al Pantheon. Mario era enorme, davvero enorme. La faccia tonda e rosea, delle colorate bretelle rosse gli sostenevano i calzoni su cui era annodato il sinale, ovvero il grembiule. In genere nel suo ristorante cucinava quello che gli pareva a lui che, tradotto in termini concreti, significava quasi sempre Pasta alla gricia. Così, quando un nuovo avventore arrivava e chiedeva il Menu, lui rispondeva sempre nello stesso modo: “E che è er Menu?” E se quello insisteva, allora lui diceva, un po’ stizzito: “’Sta bono, nun te incazzà, che te fa male. Mo’ te porto ‘na cosa buona”. Poi scompariva in cucina e tornava dieci minuti dopo con un’enorme padella sulla quale era adagiata la sua bella pasta alla gricia, antenata in bianco dell’amatriciana con la quale ha in comune l’uso del guanciale, del pecorino romano e del pepe. Differenzia invece per il pomodoro, del tutto assente, poiché la sua origine sarebbe addirittura antecedente all’importazione del pomodoro in Europa. Si dice che a “inventare” questa pasta siano stati i pastori laziali, con i pochi ingredienti che avevano a disposizione al ritorno dai pascoli. Ma Marione tutte queste cose storiche non le sapeva. Lui continuava a cucinare la sua gricia e quando si stancava, chiudeva le saracinesche del locale e a noi ragazzi che restavamo dentro chiedeva: “Allora, la facciamo si o no questa partita a tresette?”.
Altra chef formidabile nei miei ricordi è stata la Sora Lella, la sorella di Aldo Fabrizi titolare dell’omonimo ristorante che si trova tuttora all’Isola Tiberina, davanti all’ospedale del Fatebenefratelli. Anche se ogni tanto si cimentava in divertenti ruoli da caratterista nel cinema, il suo vero regno era la cucina e lei era davvero una cuoca stra-eccezionale. Naturalmente la sua era esclusivamente cucina romana doc ovvero rigatoni alla carbonara, pasta e broccoli al brodo con arzilla, coda alla vaccinara, carciofi alla Giudia, polpettine in umido, abbacchio al forno. Lella se n’è andata ormai da diversi anni, ma il ristorante continua imperterrito il proprio cammino e la propria tradizione, diretto giornalmente dal figlio di Lella, Aldo Trabalza.

Lo chef Heinz Bech.
Un altro ristorante che ricordo con infinito piacere era un buchetto piccolissimo che stava vicino a piazza Cavour. Credo che sia stato in assoluto il primo vero ristorante siciliano a Roma. Era gestito da una coppia, marito e moglie. Ci saranno stati in tutto sei tavolini e se eri sfortunato e ti toccava quello vicino alla porta, quando si apriva bisognava alzarsi in piedi per far entrare i clienti. Ma il cibo era semplicemente meraviglioso: credo di non aver mai più mangiato una pasta con le sarde così buona e una cotoletta panata alla palermitana così appetitosa, con l’aglio, il prezzemolo e il pangrattato. Per non parlare degli involtini di pesce spada ripieni e della meravigliosa insalata di arance, finocchi, sale e pepe.
Così, pensando a tutto questo, mi sono quasi vergognato quando mio figlio, incalzandomi, ha aggiunto: “Papà, ma il giornale dice che il più grande cuoco qui a Roma oggi è austriaco. È vero?”. Sì lo so, il giornale forse ha ragione e Heinz Bech, ovvero lo chef pluristellato del ristorante La Pergola è l’unico ad avere tre stelle sulla guida Michelin nella capitale. Per andare a cena nel suo locale fanno la fila per mesi, anche se poi devono staccare un assegno al momento del conto, e lì puoi trovarci piatti davvero pregiati, come la ricciola marinata all’aceto balsamico con neve di melograno e anche la frisella con tartare e gamberi rossi.
Ma volete mettere con il sapore dei miei ricordi e con il padellotto di Turiddu, la pasta alla gricia di Marione alle Coppelle e la coda alla vaccinara alla sora Lella, mescolata con i suoi ricordi di set e gli scherzi che le faceva Carlo Verdone? Se li sogna lo chef austriaco dei ricordi così, lasciamogli le tre stelle e andiamo avanti con la carbonara che qui stiamo a Roma, mica a “Povtofino”. Ho messo la v al posto della r perché, questo non ve l’ho detto, l’ottanta per cento dei clienti de La Pergola gode naturalmente della nobile erre moscia, oltre che del portafoglio gonfio, s’intende.