Descrivere, illustrare compiutamente un’isola qual è l’Asinara non è cosa che un semplice articolo di stampa possa significativamente realizzare, nemmeno un reportage dei più accurati. Occorrerebbe forse un film documentario che ne curasse diligentemente i vari settori, non necessariamente riconducibili ad un unico taglio, tale e tanta è la ricchezza di materiale da sottoporre ad un’attenzione non viziata da pregiudizi, né volta a valorizzare un aspetto a discapito dei molteplici che natura e storia generosamente ci hanno lasciato in dono. Occorre liberare lo sguardo, portare via tutto quello che gli occhi riescono a vedere e far si che la mente e il cuore trovino un accordo nel restituire l’integrità del territorio che è verità, geologica e morfologica, intrecciata a umane vicissitudini, varie e diverse prigionie di secoli in successione su cui si è scritto e documentato.
Un’isola dove trionfa una flora incontrastata che altrove non ha dimora, in cui, ad esempio, un arbusto velenoso, l’euforbia arborea, realizza uno spazio vitale di notevole estensione, a dispetto della perdita di libertà di esseri umani, sottoposti, nel tempo, a limitazioni e restrizioni che si legano indissolubilmente al passato dell’Asinara, più antico e recente, di cui resta vivo ogni particolare, apparentemente minuto e insignificante. Pierpaolo Congiatu, direttore dell’Ente Parco dell’Asinara, istituito nel duemiladue, anche se le misure di sicurezza sono del ’97, assicura che il lentischio, pianta sempreverde, riconquisterà i suoi spazi. Ora che le capre le stanno portando via, un po’ alla volta, regalandole ai pastori di capre della Sardegna, ne hanno portate via circa seimila negli ultimi due anni, perché sono devastanti, mangiano tutto quello che trovano, l’anno prossimo quell’euforbia lì, dice, non ci sarà più, rimarrà solo lentischio, così si ricomporrà l’equilibrio della macchia. Nella difesa del Parco è competente il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio, la Regione non c’entra, pur se è proprietaria dei territori e degli immobili presenti sull’isola che si allunga in una forma stretta per venticinque chilometri, con diversi nuclei urbanizzati: Fornelli, Campu Perdu, La Reale, Trabuccato e Cala d’Oliva, i principali ed altri secondari, Santa Maria, Tumbarino, Elighe Mannu e Punta dello Scorno. L’Asinara viene da molto lontano, pur se non vi sono dei fossili, se non quelli del quaternario in una piccola parte. A sud dell’isola le rocce sono di granito, una roccia effusiva che si forma nelle profondità e viene in superficie, roccia dura nella quale nessun organismo può vivere e lasciare dei fossili. Più a nord c’è lo scisto, roccia sedimentaria che dà una pietra fagliata molto scura, di cui sono fatte tutte le case di Stintino. Insediamenti del periodo nuragico non sono stati rinvenuti nell’isola, diversamente sono presenti alcune Domus de Janas prenuragiche; di recente nel tratto di mare di fronte Cala Reale, al centro dell’isola, è stato rinvenuto il carico di anfore di una nave romana del IV- V secolo, di cui si occupa la Sovrintendenza di Sassari. Vi sono zone qui come Cala Arena, Cala Sant’Andrea e Cala di Sgombro che sono riserve naturali integrali sottoposte a tutela assoluta, popolate da specie ornitologiche del Mediterraneo, tra cui il Gabbiano Corso, in via di estinzione. Si ha memoria dell’isola da epoca remota, quando i Romani le diedero il nome di Herculis isola. I Romani trafficavano e venivano in questo enorme porto naturale, c’era una grossa colonia romana a Porto Torres e qua c’era il granaio di Roma. L’associazione tra questo scoglio sardo ed Ercole nessuno è riuscito ad interpretarla fino in fondo. L’Asinara, ricorda Congiatu, se si guarda il Mediterraneo Occidentale, è perfettamente baricentrica eppure è sempre stata un’isola marginale; questa difficoltà di avere un ruolo pur essendo centrale ne ha fatto la sua storia. I popoli sono transitati e sono andati via, per le difficoltà di vivibilità dell’isola, sottoposta a venti incredibili di maestrale, con limitate risorse idriche, in cui vi sono dei pozzi e delle sorgenti, ma non attraversata da fiumi perché non ce n’è la possibilità, i bacini sono piccolissimi. L’ultimo censimento di asini presenti all’Asinara, il cui nome ne ha un’indubbia derivazione, ha certificato che gli esemplari bianchi, rarissimi, sono centocinquanta, mentre i grigi sono duecentocinquanta, vivono allo stato brado, ma vengono utilizzati nell’educazione ambientale con i bambini, e anche con i ragazzi che hanno problemi psichici e di coordinamento nel movimento. Risale al 1100 il monastero Camaldolese, da cui prende nome Cala di Sant’Andrea. Poi c’è stata la fase nella quale si sono verificati in Sardegna gli attacchi da parte delle Repubbliche Marinare; dopo sono venuti gli spagnoli, era il 1600 circa, le numerose torri a protezione dell’isola ne sono testi monianza. Nel 1760 ci fu il primo tentativo di colonizzazione dell’Asinara da parte di due fratelli francesi di Marsiglia, tentativo fallito miseramente perché i cento coloni che c’erano non riuscirono a viverci. Nel 1801 arrivarono delle imbarcazioni da Camogli e fondarono un piccolo borgo che c’è nell’isola, chiamato Cala d’Oliva, dove si erano nel frattempo installati alcuni pastori sardi di ovini. Accade poi che questa piccola colonia che si era venuta a creare in tutto l’Ottocento, che comincia anche a vedere matrimoni misti tra queste due comunità, improvvisamente nel 1885 venga espulsa dall’isola perché lo stato italiano decise di costruire a Cala Reale un lazzaretto sanitario, ospedali, uffici, chiesa, laboratori farmacologici, deportando la popolazione che va ad insediarsi in un luogo distante il breve tratto di mare che separa Fornelli, la parte più a sud dell’isola, dalla Sardegna, fondando Stintino.
Il 1885 è l’anno fondamentale, di svolta dell’Asinara che da quel momento in poi diventa carcere e lazzaretto sanitario, adibita nel Novecento a colonia penale con più di dieci distretti; quello che è ancora visibile oggi, Fornelli, strutnemmeno testitura quadrangolare di otto mila metri quadri, non era nell’attuale forma all’epoca, nato come sanatorio giudiziario, poi pian piano svolge la funzione di carcere e nella metà degli anni Settanta del Novecento diviene penitenziario di massima sicurezza, rimanendovi fino alla fine degli anni Novanta. Nei pressi di Campu Perdu vi è l’Ossario austro-ungarico dedicato ai prigionieri della Prima Guerra Mondiale, morti all’Asinara. Qui sono conservati i resti soltanto di alcuni di loro, i caduti furono circa settemila, l’Ente Parco sta facendo un lavoro con un signore di Rovereto per dare un nome a questi caduti. Si è arrivati ad identificarne, dichiara Congiatu, circa cinquemila. Entrando nella piccola cappella del Sacrario, la vista delle due pareti completamente ricoperte di teche di vetro contenenti teschi e femori umani è abbastanza impressionante, sembra quasi che chi ha disposto le ossa fosse più preoccupato di creare un senso artistico artistico dell’esposizione che non suscitare riflessione storica e umana pietà. Il sacrario risale al 1939, le vittime sono tutti militari austro-ungarici prigionieri dell’esercito italiano al nord della Slovenia, e che compirono una marcia che è chiamata nei testi la “marcia della morte” perché partirono in settantamila, ma ne arrivarono molti di meno in questa landa disperata che stava diventando carcere, ma ancora non era stato realizzato nulla. Dal dicembre 1915 al febbraio 1916 da Valona all’Asinara vennero portati ventiquattromila prigionieri austriaci con quindici viaggi di tredici piroscafi, tra cui Re Vittorio e Cordova che ebbero trecento morti ciascuno per epidemia di colera che continuò sull’isola dell’Asinara, dove trovarono sistemazione in tre campi, Fornelli, Stretti e Campu Perdu, invece a Tumbarino c’era un campo dove mettevano, in quarantena, quelli che riuscivano a fare guarire.
Il centro di Recupero Tartarughe Marine è un classico esempio di una struttura che è adibita ad un altro compito, era una casa dei fanalisti, coloro che seguono i fari, che era stata abbandonata negli anni Cinquanta/Sessanta, è stata poi recuperata con un progetto europeo per il quale ci hanno finanziato questo intervento, ricorda il direttore Congiatu, che è nel piano basso, questo delle tartarughe, mentre i piani superiori sono dedicati all’educazione ambientale. Il Centro di Recupero comprende una sala operatoria, la sala per le radiografie, qui vengono operate tartarughe con gli ami conficcati nei polmoni. Per salvarle è necessario, a volte, aprire il carapace, per estrarre l’amo e richiuderlo. Gianfranco Giannasi, dell’Ente Foreste, che ha vissuto più di una fase nella trasformazione dell’isola, racconta che da quando è cessata, nel ’97, l’attività carceraria, c’è molto più interesse per la flora e la fauna, mentre prima tutto era concentrato nel controllo dei detenuti e delle strutture penitenziarie. Ricorda di quando i detenuti comuni lavoravano con la pastorizia, tutto era gestito dal Ministero di Grazia e Giustizia, loro venivano pagati come è pagato un lavoro, “anche quelli che venivano a lavorare con me”. “Venivano e avevano voglia di lavorare, forse anche più degli operai che ho adesso”, dice, “perché era gente che voleva evadere da dentro quelle mura e poi aveva necessità di avere dei soldi perché servivano per affrontare delle spese e anche per mantenere la famiglia”. Se negli anni Settanta/Ottanta il supercarcere di Fornelli divenne noto per avere al suo interno detenuti come Curcio e Franceschini, fondatori delle Brigate Rosse, nei primi anni Novanta il feroce capo di Cosa Nostra Totò Riina ebbe il privilegio di avere a Cala d’Oliva un bunker tutto per sé, nell’assoluto isolamento previsto dall’articolo 41 bis, in cui le sue azioni quotidiane, limitatissime, venivano monitorate e registrate minuto per minuto, nel minuscolo cortile in cui gli era consentito uscire durante l’ora d’aria, dove tutto era una telecamera generalizzata che riportava fedelmente immagini dell’uomo la cui cattura, il quindici gennaio del ’93, ha segnato l’inizio della fine del potere assoluto e incontrastato di Cosa Nostra. E’ già nella storia che qui i giudici Falcone e Borsellino venissero ospitati, nei locali della foresteria nuova a Cala d’Oliva, durante la lunga preparazione per istituire il primo maxi processo a Cosa Nostra. Era il 1985, i due magistrati vissero quel soggiorno blindato anche come un’occasione di vacanza, portarono le famiglie, fecero cose semplici che della loro vita non facevano più parte da troppi anni. Oggi a Cala d’Oliva l’esposizione permanente inaugurata da poco Cosa di nuovo nostra èdedicata alla loro memoria, realizzata dall’Associazione Libera con il Centro Servizio Volontariato Sardegna Solidale. L’installazione multimediale si svolge nel bunker di massima sicurezza, in cui le sagome delle vittime della mafia recano scritte che di ognuna riferiscono un pensiero, elementi di conoscenza che divengono sapere.