Quando morì, a Roma, il 10 dicembre 1936, Luigi Pirandello lasciò disposizioni molto precise nel suo testamento: “Sia lasciata passare in silenzio la mia morte. Agli amici, ai nemici preghiera non che di parlarne sui giornali, ma di non farne pur cenno. Né annunzi né partecipazioni. Morto, non mi si vesta. Mi s’avvolga, nudo, in un lenzuolo. E niente fiori sul letto e nessun cero acceso. Carro d’infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m’accompagni, né parenti, né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta. Bruciatemi. E il mio corpo appena arso, sia lasciato disperdere perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me. Ma se questo non si può fare sia l’urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra nella campagna di Girgenti, dove nacqui”.
La cronaca ci dice però che le sue ultime volontà non furono assolutamente assecondate, le cose non andarono proprio così.
Ed è proprio riflettendo su quanto è accaduto allora, su come il tutto avesse un perfetto sapore pirandelliano, che è nata l’idea di Leonora Addio, nuovo film di Paolo Taviani (92 anni), interpretato da Fabrizio Ferracane, Matteo Pittiruti, Dania Marino, Dora Becker e Claudio Bigagli. Il film è stato presentato oggi, martedì 15, al Festival di Berlino (Berlinale), unico titolo italiano in competizione, e segna la quarta partecipazione del regista alla rassegna tedesca.
Il lungometraggio si presenta in due parti: prima gli incredibili tre (!) funerali per Pirandello e poi “Il chiodo”, lavoro letterario terminato dal drammaturgo, scrittore e poeta siciliano soli venti giorni prima di morire improvvisamente di polmonite a Roma, il 10 dicembre 1936.
Leonora Addio (il titolo riprende significativamente quello di una novella scritta dal Pirandello nel 1910, Leonora, addio!, e contenuta nella raccolta Novelle per un anno) è un riuscito, commovente saluto di Paolo Taviani al fratello Vittorio – scomparso nel 2018 all’età di 88 anni – ma anche roba vecchia perché avrebbe già dovuto far parte del loro film Kaos (1984) ma poi non se ne fece nulla per problemi della produzione.
Modificata in parte la sceneggiatura originale (anche perché Vittorio, prima di morire aveva detto al fratello: “Dopo che sarò morto non voglio che esca nessun film con il mio nome sopra senza poterlo controllare ed amare”), il risultato è un film “profondamente pirandelliano”, con il nesso tra realtà e spettacolo, tra realismo e messinscena, che vuol far ci capire che, proprio come proponeva il drammaturgo: tutto ciò che uno vive è teatro, vita e teatro allo stesso tempo.
La prima parte del film – girata tutto in bianco e nero, con la sola eccezione della scena del lancio verso il mare di parte delle ceneri – inizia con l’autentico filmato di Pirandello che riceve il Premio Nobel per la letteratura nel 1934 e prosegue con il suo funerale, seguendo poi le peripezie delle ceneri prima frettolosamente consegnate al cimitero del Verano nella Roma fascista e poi finalmente portate, 15 anni dopo la morte, in Sicilia, ad Agrigento, come chiesto da Pirandello nelle sue ultime volontà.
Il viaggio delle ceneri diventa anche un viaggio attraverso l’animo dello scrittore siciliano, utilizzando sue intime riflessioni – vedi quella sull’impossibilità della sua prossima fine perché lui si sente ancora giovane, o l’incredulità di fronte al fatto di avere figli, tre – e attraverso l’Italia del dopoguerra, utilizzando in modo maestro diverso materiale d’archivio e frammenti di cinema neorealista. Naturalmente, nella tragicità dei fatti non può mancare il tocco pirandelliano di un umorismo “tragico”, come quando il funzionario statale mandato a recuperare dal Verano le ceneri di Pirandello (il bravo Fabrizio Ferracane, che a Berlino è anche nel cast di Una femmina, di Francesco Costabile, non in concorso) ritrova la cassa che le conteneva e che sul treno, mentre si era assopito, gli era stata sottratta da tre inconsapevoli siciliani di ritorno dalla guerra che cercavano solo una ripiano per giocare a tressette col morto.
Dopo questa prima parte da road movie in bianco e nero, il film si colora con la messa in scena, nella Brooklyn dei primi del 1900 (ricostruita a Cinecittà), de Il chiodo, ultimo racconto scritto da Pirandello prima di morire: la trama è ridotta davvero al minimo, con pochi avvenimenti. In un clima surreale, questa storia bizzarra narra di un giovanissimo Bastianeddu Edo che viene costretto a forza dal padre a lasciare la Sicilia e la madre, per raggiungere l’America. La nostalgia dalla terra natìa, la lontananza dalla figura materna e la sua nuova vita oltreoceano lo portano però a compiere un gesto estremo e violento, l’uccisione – con un chiodo raccolto per strada – di una ragazzina (Betty) mentre sta lottando duramente a terra con una ragazza più grandicella, per un motivo sconosciuto allo spettatore.
Questa non sembra proprio una novella come le altre ma piuttosto il canto del cigno di un uomo stanco di vivere; sembra infatti una sorta di testamento spirituale, come se Pirandello volesse fare i conti con sé stesso, lasciando anzitutto perdere le riflessioni sull’umorismo, cioè quelle che, in forma letteraria e drammaturgica, lo avevano portato al successo mondiale. In questa novella non c’è nulla che faccia ridere o sorridere, non c’è ironia, ma solo sconcerto.
Bastianeddu è convinto che in quel gesto non ci sia stata “casualità” ma “causalità”: l’aveva cioè raccolto “apposta”, proprio perché, subito dopo, svoltando la strada, aveva incontrato due ragazzine che si malmenavano, di cui una sarebbe stata la sua vittima. Come se lui fosse stato una sorta di giustiziere mandato dal destino. Burattini nelle mani del fato: ecco cosa siamo e forse pensava Pirandello nei panni di quel ragazzo: Betty sembra rappresentare tutto ciò che lui aveva sacrificato per poter diventare qualcuno e di cui ora si pentiva, mostrandoci la morte in una prospettiva nuova: quella di chi la subisce e di chi la provoca.
Leonora Addio segna il terzo incontro cinematografico dei Taviani con Pirandello, dopo Kaos e Tu ridi (1998), liberamente tratto dalle novelle Tu ridi e La cattura. Un incontro che già da allora aveva suscitato tanto interesse: se infatti Kaos, sospeso tra realismo e favola, è un film che si abbandona al piacere della narrazione, non smettendo di credere nella forza trasformatrice dell’arte, Tu ridi rappresenta la crisi di un presente che si sta accartocciando su sé stesso e non trova più le risposte adeguate per uscire dalla crisi etica e politica, ma anche artistica.
Non dimentichiamo che Pirandello stesso si definì figlio del caos: ricordava il luogo della sua nascita, ma soprattutto intendeva proporsi come lo scrittore che testimonia la relatività di ogni cosa, il Caos, il flusso incessante del divenire.