Dopo 10 anni (Il tempo che ci rimane), torna sugli schermi, con un film tutto suo, – e non più segmenti di un altro lungometraggio – il 59enne regista palestinese Elia Suleiman, una delle voci più rilevanti del cinema medio-orientale e già autore di autentici “gioielli” come Cronaca di una sparizione (1996, Migliore Opera Prima al Festival di Venezia), Cyber-Palestina (1999 – I problemi di Giuseppe e Maria per attraversare la Striscia di Gaza, occupata dall’esercito israeliano, e raggiungere Betlemme, sotto l’egida dell’Autorità Nazionale Palestinese) e il premiatissimo Intervento divino-Cronaca d’amore e di dolore (2002, Gran Premio della Giuria a Cannes, Premio Internazionale della Critica – Storia d’amore ambientata al posto di controllo tra Nazareth e Ramallah, in Cisgiordania).
Con Il paradiso probabilmente, dove è regista e protagonista, Suleiman, come sempre scarmigliato, elegante e mai senza il suo cappello, è un intellettuale di pochissime parole (ne dice solo tre!), ma non solitario, che saltella dalla natale Nazareth prima a Parigi e poi a New York per vedere se, lontano dalle tensioni e contraddizioni della Palestina, il mondo possa essere davvero un paradiso e magari trovare anche produttori che finanzino un suo film (guarda caso, Il Paradiso probabilmente è stato prodotto da finanziatori di Francia, Qatar, Germania, Canada, Turchia e Palestina!).
Ancora una volta il regista, fedele alla maschera di osservatore impassibile del mondo che lo circonda e con un occhio a cavallo tra Occidente e la tanto travagliata Palestina, crea una commedia a metà tra surreale e grottesca, “gironzolando” tra alienazione e crisi d’identità servendosi di un’espressività non solo satirica ma anche profondamente beffarda, impassibile, e talvolta struggente.
La comicità di Suleiman è stata spesso paragonata a quella di Keaton, Chaplin, Tatì, ma mentre il portamento impassibile dei primi portava solitamente ad una precisa gag, il regista palestinese fa questo molto raramente: la sua comicità sembra finalizzata soprattutto a sottolineare una particolare situazione politica, non del singolo. Le sue sono micro-scenette che imprigionano le stranezze del mondo, con persone che vanno al supermercato per comprare armi, o poliziotti-ballerini sulle loro mono-ruote a motore, o tassisti meravigliati di avere un palestinese come cliente!
“Nei miei film precedenti ho cercato di rappresentare la Palestina come un microcosmo del mondo, qui ho voluto mostrare il mondo come un microcosmo della Palestina”, ha detto Suleiman. Insomma, tutto il mondo è paese, o meglio “tutto il mondo è Palestina”.
Il paradiso probabilmente è una commedia dell’assurdo, del paradossale, che solleva però un profondo interrogativo: se non siamo in sintonia con noi stessi, riusciremo mai a trovare un nostro posto nel mondo da chiamare patria? Il momento più significativo delle contraddizioni del mondo sulla Palestina si ha quando il regista e produttore cinematografico messicano Gael García Bernal (che qui interpreta se stesso) presenta Suleiman ad una società americana di produzione dice “Vuole fare una commedia sulla pace tra Israele e Palestina” e la risposta del produttore è “Già fa ridere! Non è sufficientemente palestinese”.
Se un appunto si può fare al nuovo lavoro di Suleiman è che la vis comica sembra qui più marcata, e autonoma, che non nei suoi film precedenti, a svantaggio della vis poetica e politica che, insieme a quella somico-surreale, avevano dato loro maggior spessore.