Se c’è un regista di cui ho amato lo stile narrativo, il modo di narrare per immagini, le inquadrature lente, è sempre stato Sergio Leone. Chiaramente non sono il solo (per fortuna) ad avere questa passione per Leone, per il suo cinema (talvolta amato meno in Italia – chissà poi perché – e più all’estero, in Francia, negli Stati Uniti soprattutto).
Non poteva quindi che intitolarsi “C’era una volta Sergio Leone” la grande mostra al Museo dell’Ara Pacis, in programma fino al 3 maggio 2020, con cui Roma celebra, a 30 anni dalla morte e a 90 dalla sua nascita, uno dei miti assoluti del cinema italiano, un regista visionario a suo modo, capace di reinventare non solo un genere (il western) ma anche un modo di fare cinema (indimenticabili le sue inquadrature ravvicinate, il suo modo lentissimo di narrare, la cura per i particolari, la capacità di trovare gli attori giusti e basti ricordare che fu lui a volere Clint Eastwood nella prima trilogia western, quando l’attore era uno sconosciuto o quasi, reduce da un telefilm americano e niente più).
Promossa dall’Assessorato alla Crescita culturale di Roma Capitale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, l’esposizione arriva in Italia però solo dopo il successo ottenuto lo scorso anno alla Cinémathèque Française di Parigi, istituzione co-produttrice dell’allestimento romano insieme alla Fondazione Cineteca di Bologna. A dimostrazione che certi ricordi italiani partono prima oltre confine e poi arrivano in Italia di rimando. Accontentiamoci comunque e si vada a vedere questa fantastica mostra. Il percorso espositivo è stato suddiviso in diverse sezioni: Cittadino del cinema, Le fonti dell’immaginario, Laboratorio Leone, C’era una volta in America, Leningrado e oltre, dedicata all’ultimo progetto incompiuto, e infine L’eredità Leone. Quest’ultima racconta di un universo sconfinato, quello di Sergio Leone, che affonda le radici nella sua stessa tradizione familiare: il padre, regista nell’epoca d’oro del muto italiano, sceglierà lo pseudonimo di Roberto Roberti, e a lui Sergio strizzerà l’occhio firmando a sua volta il film Per un pugno di dollari con lo pseudonimo anglofono di Bob Robertson.
Nel suo intenso percorso artistico Sergio Leone attraversa diversi generi, come il peplum, (filone cinematografico storico-mitologico a cui suo il film Il colosso di Rodi appartiene), poi riscrive letteralmente il western e trova il suo culmine nel progetto di una vita: C’era una volta in America. A questo sarebbe seguito un altro film di proporzioni grandiose, dedicato appunto alla battaglia di Leningrado, del quale rimangono, purtroppo, solo poche pagine scritte prima della sua scomparsa.
Leone, infatti, a differenza di tanti registi, non amava scrivere. Era, piuttosto, un narratore orale che sviluppava i suoi film raccontandoli agli amici, agli sceneggiatori, ai produttori, all’infinito, quasi come gli antichi cantori che hanno creato l’epica omerica. Ma ciò nonostante, il suo lascito è enorme, un’eredità creativa di cui solo oggi si comincia a comprendere la portata. I suoi film sono, infatti, “la bibbia” su cui gli studenti di cinema di tutto il mondo imparano il linguaggio cinematografico, mentre molti dei registi contemporanei, da Martin Scorsese a Steven Spielberg, da Francis Ford Coppola a Quentin Tarantino, da George Lucas a John Woo, da Clint Eastwood ad Ang Lee continuano a riconoscere il loro debito nei confronti del suo cinema.
Le radici del cinema di Sergio Leone affondano, naturalmente, anche nell’amore per i classici del passato – in mostra i film dei giganti del western, da John Ford a Anthony Mann – e rivelano un gusto per l’architettura e l’arte figurativa che ritroviamo nella costruzione delle scenografie e delle inquadrature, dai campi lunghi dei paesaggi metafisici suggeriti da De Chirico, all’esplicita citazione dell’opera Love di Robert Indiana, straordinario simbolo, in C’era una volta in America, di un inequivocabile salto in un’epoca nuova. Per Leone la fiaba è il cinema.
Il desiderio di raccontare i miti (il West, la Rivoluzione, l’America) utilizzando la memoria del cinema e la libertà della fiaba, entra però sempre in conflitto con la sua cultura di italiano che ha conosciuto la guerra e ha attraversato la stagione neorealista.
A partire da Per qualche dollaro in più Leone può permettersi di assecondare la sua fascinazione per il passato e la sua ossessione documentaria per il mito curando ogni minimo dettaglio. Perché una favola cinematografica, per funzionare, deve convincere gli spettatori che quello che vedono stia accadendo realmente.
Grazie ai preziosi materiali d’archivio della famiglia Leone e di Unidis Jolly Film i visitatori entrano in questa mostra nello studio di Sergio, dove nascevano le idee per il suo cinema, con i suoi cimeli personali e la sua libreria, per poi immergersi nei suoi film attraverso modellini, scenografie, bozzetti, costumi, oggetti di scena, sequenze indimenticabili e una costellazione di magnifiche fotografie, quelle di un maestro del set come Angelo Novi, che ha seguito il lavoro di Sergio Leone a partire da C’era una volta il West.