Se la strada potesse parlare (If Beale Street Could Talk), scritto nel 1974, è il quinto dei tredici romanzi di James Baldwin e fa riferimento alla canzone blues di W.C. Handy “Beale Street Blues”, omaggio musicale alla Beale Street (Via Beale) situata nella periferia di Memphis, nello stato del Tennessee, “capitale mondiale” di quello stupendo genere musicale che è il blues.
È un romanzo in cui Baldwin racchiude l’essenza stessa del suo pensiero, della sua vita. Solo pochi anni prima lo scrittore aveva visto morire, uno dopo l’altro, Medgar Evers, Malcom X e Martin Luther King, simboli granitici di una lotta per l’uguaglianza nell’America della segregazione razziale, della disgustosa arroganza del Klu Klux Klan, della violenza gratuita verso uomini e donne di colore, e verso i suoi fratelli e le sue sorelle.
Un romanzo nato insomma dal dolore e dalla rabbia, ma profondamente intriso di dignità, fiducia, amore. Come lo è il cuore dei due protagonisti dell’omonima trasposizione cinematografica del romanzo, firmata dal giovane regista Barry Jenkins, salito alla ribalta nel 2016 con il pluripremiato “Moonlight” (tre Oscar, un Golden Globe e “Migliore film dell’anno” per la prestigiosa National Society of Film Critics – Associazione dei critici americani).
Il film “Se la strada potesse parlare” è quindi la storia di due giovani, la bella diciannovenne Clementine “Tish” Rivers (la brava, quasi debuttante KiKi Layne) e l’aitante scultore Alonzo “Fonny” Hunt (Stephan James – il Jesse Owens di “Race”), nati come Baldwin a Harlem – come lui figli simbolici di quella Beale Street di cui hanno raccolto l’eredità – e che ora attendono un figlio che Fonny, però, potrà vedere solo da dietro le sbarre della prigione in cui è rinchiuso, perché in attesa di processo dopo essere stato accusato ingiustamente di stupro da un poliziotto razzista (Ed Skrein- Trono di spade), nonostante la tempistica attesti chiaramente che lui non poteva essere presente nella casa del misfatto. Storicamente, ideologicamente, il colpevole è lui, perché nell’America dei primi anni ’70 “il nero era sempre colpevole, qualunque potesse essere la sua parola”. Era o è, anche oggi?
Il film di Jenkins è una celebrazione dell’amore attraverso la storia di questi due giovani innamorati, le loro famiglie e le loro vite, mentre cercano, nonostante una giustizia a loro contraria, di vivere il sogno americano, un futuro fatto di lavoro, normalità e libertà.
Lo sdegno di Jenkins per il razzismo è palpabile ma il regista non calca mai la mano. La rabbia per un’ingiustizia intollerabile è rimpiazzata con la tristezza per la perdita forse insormontabile per Fonny di poter stringere da papà libero il proprio figlioletto: ma l’ottimismo nell’energetico potere dell’amore è sempre dietro l’angolo. Dopotutto James Baldwin parlando del suo libro disse: “Ogni poeta vive una sua forma di ottimismo, ma lungo la strada per raggiungerlo deve provare un certo livello di disperazione per poterlo poi vivere per tutta la vita”.
L’ottima fotografia, la scenografia e lo splendido sottofondo musicale jazz di “Se la strada potesse parlare” dimostrano l’amore del regista per il materiale letterario che ha sottomano, ma l’impegno dichiarato di Jenkins di volersi mantenere il più fedele possibile al testo del romanzo, e a quel periodo, ho come effetto che in alcuni momenti i dialoghi, specie quelli di Tish, sembrano troppo verbosi per un film del genere. Il ritmo risulta molto accettabile per gran parte, anche se talvolta alcune scene sembrano un pochino “sfuocate” nei personaggi, con poco impatto. Nonostante questo, un buon film che lascia lo spettatore offeso e avvilito per come il razzismo possa aver trovato, e trovare ancora spazio, anche in contesti urbani sviluppati, come New York, ma non solo.
Il film è candidato agli Oscar in tre categorie: Migliore attrice non protagonista (Regina King, Sharon, madre di Tish), Migliore colonna sonora originale e Migliore sceneggiatura non originale.