«È stata una sfida portare in scena un romanzo così paradossale, ma anche vitale e colorato che tratta temi così grandi che riguardano l’uomo come il demoniaco e l’amore». Andrea Baracco ha vinto la sfida e reso contemporanea e viva la messa in scena dell’adattamento teatrale del romanzo “Il Maestro e Margherita” di Michail Bulkakov, già autore di altri successi letterari come Appunti di un giovane medico, La Guardia Bianca, Cuore di cane.
Nello spettacolo, al Teatro Eliseo di Roma fino al 3 febbraio, il regista incastra i complessi piani narrativi, gli affascinanti sotto testi di uno dei più famosi romanzi russi del Novecento, pubblicato per la prima volta a puntate sulla rivista Москва (in italiano “Mosca”) tra il novembre del 1966 e il gennaio del 1967.
Protagonisti dello spettacolo un gigantesco di Michele Riondino, voce, corpo e animo inquieto del perfido Woland, ovvero Satana, Federica Rosellini, nei panni di Margherita, l’amante segreta del Maestro e uno scrittore condotto alla follia dalle critiche al suo romanzo su Ponzio Pilato, che è interpretato da Francesco Bonomo.
Ha portato in scena uno dei capolavori della letteratura russa, scegliendo questo autore rispetto a tanti altri. Come mai?
“In parte per un motivo di cuore. Poi abbiamo lavorato con Letizia Russo sulla riscrittura del romanzo per il palcoscenico. È un testo complesso e difficile da trasporre sia al cinema che a teatro. Ma abbiamo voluto farlo”.
Un romanzo molto complesso, ambientato in due scenari diversi: la Mosca anni ’30 e Gerusalemme.
“Sì, ci sono tre livelli narrativi che si intersecano. È un romanzo complicato come è stata l’esistenza stessa del suo autore che è intervenuto sulla storia per tutta la sua vita, riscrivendolo insistentemente e quasi di nascosto per vedere poi la pubblicazione dopo vent’anni dalla sua morte, grazie alla moglie. E’ stato un romanzo molto vissuto. Ed è evidente in ogni pagina che porta in dote la volontà e l’umanità di Bulgakov. Molti passaggi sono autobiografici”.
Una delle più famose citazioni del romanzo è una frase che Woland dice al Maestro: “I manoscritti non bruciano”.
“Questa scena riprende un episodio della vita dello stesso Bulgakov a cui la pubblicazione della prima versione di Il Maestro e Margherita fu impedita dalla censura sovietica nel 1930. In un momento di disperazione, decise di dare il romanzo alle fiamme e lo gettò in una stufa. In una lettera ad una sua amica raccontava il suo inferno, diviso tra il desiderio di scrivere e la difficoltà di farlo in maniera libera. Rappresentava il mondo dell’Unione Sovietica con personaggi grotteschi, un po’ alla Gogol, e mostrava un ritratto diverso della Storia del suo paese, tramandata da secoli e non sempre corrispondente al vero. Ci racconta come un’artista più di uno storico possa avere l’intuizione del vero”.
Vede dei parallelismi con la situazione attuale o rappresenta soltanto una misera mistificazione della realtà?
“Più che della situazione attuale parlerei di una storia trasversale dell’uomo in tutte le epoche. Nel senso che l’intellettuale, l’artista nello specifico, è colui che viene chiamato a mostrare la realtà senza le ipocrisie e le convenienze della politica. Da sempre c’è una forma di ostracismo”.
Rispetto ad altri famosi autori russi è meno noto, secondo lei è dovuto alla sua prosa ermetica o perché ha subito più di tutti la censura sovietica?
“Sicuramente non ha avuto un’esistenza semplice. Ha subito la censura ed è stato costretto a reinventarsi più volte. Era un uomo di teatro che ha scritto degli adattamenti e fatto anche l’assistente. Ci sono delle lettere che mandò a Stalin chiedendo non di lavorare ma di avere il modo di sopravvivere perché veniva costantemente messo ai margini”.
Tanti registri ed una figura che si muove ed emerge in questo gioco pirotecnico e fantastico…
“Il Maestro e Margherita è anche un grande inganno perché molti pensano che il tema principale sia la storia d’amore tra di loro, in realtà il protagonista assoluto è Woland, il Diavolo, un’entità che in qualche modo arriva nella realtà nella Russia degli anni Trenta semplicemente per mostrare le sue contraddizioni interne. Poi ci sono tanti registri interni al testo. Bisogna leggerlo e rileggerlo per capirlo fino in fondo. Puoi anche perderti. Ha avuto tante stesure e non è un romanzo di lettura immediata”.
Come è stato dirigere Michele Riondino?
“Ci conosciamo dai temi dell’Accademia e negli anni ci siamo sempre tenuti in contatto, sperando di fare poi qualcosa insieme. Quando abbiamo deciso di portare sul palco l’opera ho pensato subito a Michele perché ha quella ambiguità, trasversalità e un tipo di bellezza anche crudele che poteva portare valore al personaggio”.
E infatti la collaborazione teatrale e intellettuale è stata perfetta…
“Sì. Ha dato corpo al Diavolo, al di là della grande iconografia letteraria penso in letteratura al Faust di Goethe oppure alle grandi produzioni cinematografiche nel cinema come Al Pacino ne L’avvocato del diavolo. Dovevamo costruire una maschera, ed è stato molto divertente procedere insieme cercando la giusta strada”.