“Come siamo noi siciliani?”: questa è la domanda che Ignazio Bonaventura, protagonista del film presentato lunedì sera alla Casa Italiana Zerilli-Marimò della New York University, pone incessantemente alle persone che incontra in viaggio per la regione. Questa è anche la domanda a cui Francesco Lama cerca di dare risposta nella sua opera, “I Siciliani”. Un documentario “diverso”, come lo definisce lo stesso regista, che ha l’enorme merito di non dipingere la Trinacria con le solite tinte da cartolina e depliant turistico. I temi del mare, del sole e della buona cucina lasciano spazio al racconto di Ignazio e, attraverso gli occhi di questo ragazzo, Lama è in grado di offrire la sua opinione sulla questione identitaria che da sempre infiamma le discussioni tra siciliani.
Ed è stato un record di pubblico lunedì sera alla Casa Italiana della NYU, con il direttore Stefano Albertini, che nell’introdurre il regista accompagnato dall’attrice Maria Grazia Cucinotta, ha detto che “per lei oggi la fila è stata ancora più lunga che quella avuta per Richard Gere”.
L’idea di base non è troppo originale ma è comunque un punto di partenza interessante: Ignazio, un giovane disoccupato, iscritto alle liste di collocamento ma lavoratore in nero, fidanzato ma eterno scapolo nell’animo, decide di partire e percorrere a piedi l’isola, raccogliendo testimonianze per la stesura di un libro. Nel suo cammino incontra vari personaggi, ognuno con idee diverse su come descrivere le qualità dei siciliani, ognuno con i suoi argomenti di conversazione per gli spettatori. Tra gli altri, Pietrangelo Buttafuoco, autore di Buttanissima Sicilia. Dall’autonomia a Crocetta, tutta una rovina, apre con una promettente riflessione sul ricordo dei morti e le lezioni per i vivi; una coppia di attori ci regala citazioni di Pirandello, Bufalino, Goethe e Sciascia; Leo Gullotta analizza il proverbiale sconforto e l’orgoglio che contraddistinguono al contempo gli abitanti della regione; l’inscenato comizio del politico locale a caccia di voti ci fa tornare alla mente notizie di cronaca purtroppo ricorrenti ad ogni tornata elettorale. A bilanciare i pregi finora elencati, però, alcuni difetti non trascurabili contribuiscono a sprecare il potenziale e a rendere il lavoro incompiuto, a tratti superficiale.
Innanzitutto, la durata complessiva del film. Il regista è consapevole del fatto che gran parte dei commenti negativi siano stati diretti a questo aspetto del documentario, ma non sembra comprendere le critiche e si giustifica dicendo: “prima giravo cortometraggi e le persone si lamentavano perché finivano troppo presto”. Tradotto: adesso nessuno ha il diritto di lagnarsi di essere stato costretto in poltrona per due ore. Peccato che esistano infinite possibilità intermedie tra un corto e una pellicola di quasi centoventi minuti, soprattutto se si annoiano gli spettatori. Non è chiaro, infatti, perché la narrazione si soffermi a lungo su alcune comparse che ripropongono continuamente gli stessi concetti senza nulla aggiungere alla ricerca. C’è la figura del boss, ad esempio, del quale è difficile capire il senso, soprattutto se si considera che è uno dei pochi attori a cui Lama avrebbe potuto far recitare qualsiasi copione. Forse l’ironia, forse l’ennesimo stereotipo cinematografico di un Don Vito Corleone, come se la mafia in Sicilia fosse ancora quella di fine Ottocento e non l’azienda criminale dal fatturato miliardario riportata da giornalisti e magistrati contemporanei.
Dei problemi legati a un minutaggio eccessivo sa qualcosa Giuseppe Tornatore: l’originale Nuovo Cinema Paradiso (173’) fu ritirato dal produttore a pochi giorni dall’uscita nelle sale, editato e ridotto a 123’. La nuova versione, come sappiamo, arrivò agli Academy Awards e vinse la statuetta come miglior film straniero nel 1990. Qualche taglio in più avrebbe giovato anche al lavoro di Francesco Lama.
Nelle due ore di film in cui molti discorsi diventano ridondanti e ripetitivi, sembra paradossale che il regista non sia riuscito a dare voce alle grandi assenti, le siciliane. Questa nota dolente viene sollevata alla fine della proiezione, quando gli si chiede come mai Maria Grazia Cucinotta sia l’unica donna a parlare liberamente nel corso del film. In effetti gli altri personaggi femminili sono relegati a un mero ruolo scenografico o, peggio, rappresentati come arrendevoli fanciulle che cascano ai piedi del fascinoso “scrittore” protagonista. A questa e alle tante altre domande sul tema poste dagli attoniti presenti in platea, il regista risponde affermando di aver scelto l’emblema della bellezza e della femminilità – Maria Grazia Cucinotta – e di aver voluto riportare la realtà per com’è, a suo dire, in Sicilia. Per Lama le donne siciliane sono sempre “dietro”, “nascoste”, e “non vedo cose negative in questo”. A Maria Grazia Cucinotta, ospite della serata, viene data l’opportunità di ribattere, ma l’attrice messinese si limita a un timido “il mio punto di vista è completamente diverso” e a una pessima battuta “per gli uomini è importante [che sia così] e noi non vogliamo deluderli”. Mentre nella sala echeggiano le parole di Asia Argento sulla solidarietà delle colleghe italiane, il dibattito continua, alimentato dalle alzate di mano dal pubblico. Lama prova a correggere il tiro – “non vorrei essere frainteso… vorrei poter uscire di qui tranquillamente” – ma la frittata è fatta e il regista ci mette più uova, spiegando che non era realistico porre la domanda di Ignazio alle donne perché nella vita quotidiana nessuno le interpellerebbe. La questione seguente potrebbe essere, ironicamente: “com’è stato riprodurre un film sull’Arabia Saudita?”, ma il regista fa già abbastanza per rovinarsi con le sue stesse interpretazioni, tanto da far pensare a quel “Bastaaaaaaaaaaaa!” urlato dal protagonista nella piazza del paese. Nell’era del #MeToo e nella sala di una townhouse di Manhattan, Francesco Lama appare quantomeno ingenuo per aver esposto queste tesi.
Nel film, durante il dialogo con Maria Grazia Cucinotta, Ignazio solleva il dubbio: “Ha senso scrivere un libro su questo argomento?”. Parafrasando, viene da chiedersi se ha senso invece girarci un film. Probabilmente no, non così: non doveva essere un “documentario già visto”, ma in fondo lo è lo stato. A contrastare la rassegnazione che emerge ci pensa fortunatamente il Maestro Pasticcere Nicola Fiasconaro, che addolcisce letteralmente l’evento con le sue torte e i suoi cannoli. Non è vero che in Sicilia “cu nesci arrinesci,” (chi esce, riesce) e Fiasconaro ne è la prova: dal paesino di Castelbuono, Palermo, ha conquistato il mondo arricchendo il repertorio di dolci tradizionali con altri piatti tipici della cucina italiana, come il panettone. Simbolo della positività, del coraggio e della resilienza che possono davvero portare cambiamento alla regione.