Su Venezia 73 calano il sipario e i verdetti della giuria. Vince il film più bello del concorso, il più emozionante e denso, The Woman Who Left di Lav Diaz, che riceve in questo modo — e finalmente — il giusto riconoscimento dal festival veneziano che fino ad ora lo aveva sempre relegato nella sezione Orizzonti.
Che festival è stato?
Al di là dei verdetti della giuria, che selezionano nella proposta complessiva inevitabilmente solo pochi titoli, come è stata questa edizione del festival?
Sicuramente ricca: di spunti, nomi importanti, classici restaurati, giovani autori emergenti. Di tutto un po’, con una densità del palinsesto che è stata in grado di rivaleggiare con quella specie di All-Star-Game che è stata questa edizione del festival di Cannes. Alla prova dello schermo, la qualità media è stata decisamente alta, anche se è necessario evidenziare delle anomalie e degli elementi meno positivi.
In prima battuta, rispetto alle selezioni più cinephile e sperimentali degli ultimi anni, è mancata l’impressione che nella selezione complessiva vi fosse un filo tematico comune e delle tendenze estetiche riconoscibili. Insomma, la sensazione è stata quella di un assortimento molto vario ma che in qualche modo non sia riuscito, come nelle ultime due edizioni, a misurare la temperatura del momento storico che stiamo vivendo e delle direzioni che il cinema, nel mondo, sta intraprendendo.
L’Italia in Mostra
La seconda considerazione riguarda il cinema italiano, che, in un’edizione, come detto, di qualità alta ha messo insieme una delle peggiori compagini che si ricordino al Lido. Su questo, però, sono necessarie alcune ulteriori riflessioni.
Una riguarda le cosiddette “cause occasionali”: per questioni di tempi e di scelte, gli autori, diciamo così, consolidati non avevano film pronti in concomitanza con il festival veneziano.
La seconda riguarda la stagione da cui siamo usciti, che è stata celebrata come quella della rinascita del cinema di genere, quello di Lo chiamavano Jeeg Robot, Veloce come il vento, Perfetti sconosciuti. La tendenza che si può leggere mettendo insieme questi spunti, è che il cinema italiano vede una crescita qualitativa delle produzioni cosiddette commerciali, una buona prolificità di autori apprezzati e già celebrati (come Bellocchio, Virzì e anche Giovannesi, che hanno scelto la Quinzaine di Cannes) e una preoccupante assenza di giovani autori di qualche interesse.
Dei tre film in concorso, solo l’ostico Spira Mirabilis sembrava “al suo posto” dentro la competizione principale, nella sua problematica sperimentalità. Gli altri due, Questi giorni di Piccioni (forse il più povero tra i film di Venezia 73) e Piuma di Roan Johnson, sembrano proprio stonare se accostati a tutti gli altri titoli proposti.
Il team USA
Dagli States, grande cinema. Il team di Alberto Barbera indovina ancora una volta l’opener, con il bellissimo La La Land di Damien Chazelle, che – esattamente come Gravity tre anni fa e Birdman due – si giocherà chance importanti alla notte degli Oscar. Poi la fantascienza filosofica di Villeneuve, il ritorno di Tom Ford con Nocturnal Animals (Gran premio della giuria), ma anche il bellissimo Jackie, il primo film americano del cileno Pablo Larrain. Anche in questo caso, la selezione complessiva, includendo anche Orizzonti e le sezioni collaterali, non sembra però offrire nuovi spunti e nuovi nomi. Anzi, tra i giovani “di belle speranze”, nonostante il Premio speciale della giuria, delude certamente Ana Lily Amirpour, il cui The Bad Batch è stato uno delle delusioni della Mostra.
Il vincitore
Per quanto riguarda i verdetti, posto che non va mai dato ad essi un peso eccessivo, limitiamoci a dire che a vincere è stato senza dubbio il film migliore, un’opera enorme, sperimentale, straordinaria. Lav Diaz fa un cinema difficile: lunghi quadri statici di minuti e minuti, tempi dilatatissimi, la ferma convinzione che il cinema debba catturare anche i momenti apparentemente “deboli”, perché spesso è in essi che si manifesta il senso profondo delle cose. Talvolta lo spettatore è messo a dura prova, ma è ripagato da una sorta di viaggio profondo in un universo magico, in cui si ritrova completamente immerso.
Suggestivo l’assunto di fondo, ispirato al racconto Dio vede la verità ma non la rivela subito di Tolstoj: che cosa accadrebbe se un soggetto venisse improvvisamente proiettato trent’anni avanti nella vita, in un mondo che, nel frattempo, lo ha dimenticato? Trenta, infatti, sono gli anni che Horacia Somorostro (Charo Santos-Cancio) ha trascorso in carcere ingiustamente per un crimine che non ha commesso. Il tempo dilatato della prigione, uguale a se stesso, ha scavato un solco tra lei e il mondo: i figli, che la credevano colpevole, non sono mai andati a trovarla, il fuori dalla prigione si è dissolto. Il tempo ha anche favorito l’elaborazione del lutto reciproca tra lei e il mondo stesso: la sua vita è dentro la prigione, la società l’ha dimenticata. Poi, inaspettata, la confessione che innesca le vicende di The Woman who Left: la donna che ha realmente compiuto l’omicidio, Petra (Shamaine Centenera-Buencamino), in carcere per un altro delitto e sua grande amica, lascia una confessione scritta e poi si uccide. Fu tutto un inganno, la vendetta di un amante tradito, ricco e potente, Rodrigo Trinidad, che si era liberato di Horacia letteralmente rimuovendola dalla vita.
Diaz, con i suoi ormai celebri tempi espansi, ci immerge nel mondo interiore di una donna che, uscita dal carcere, scopre che quei trent’anni hanno trasformato la sua stessa vita in una grande prigione. La sua ricerca — prima dei figli, poi di una vendetta profondamente desiderata ma anche temuta — è asincrona, non riesce ad andare a tempo con la realtà che ha ritrovato e si trasforma progressivamente in una lunga, vuota attesa. In questa attesa, Horacia, giunta sull’isola delle sue origini, scopre che l’unica cosa che non è cambiata negli anni è la profonda disuguaglianza della società, l’ingiustizia ineliminabile che la caratterizza. Mentre capisce che il bene più prezioso che, una volta perso, non si può più riavere indietro è il tempo (e nel suo caso, trent’anni nella vita di una madre che non ha potuto veder crescere i suoi figli), Horacia colma il suo vuoto interiore assistendo i tanti bisognosi che incontra. Assume identità diverse: si fa chiamare Leticia, Renata, a volte addirittura ha le sembianze di un uomo. Si lega ad un bizzarro venditore ambulante e a Hollanda, travestito epilettico, che protegge in qualche modo dai soprusi della società.
Lo stile di Diaz, ancora più che in passato, amplifica l’impatto emotivo della vicenda. Impressiona soprattutto il modo in cui il regista (come sempre anche direttore della fotografia) si serve della luce. Un bianco e nero mozzafiato, iper contrastato, che spesso “brucia” il bianco, sembra “scolpire” nel buio le forme che compongono le singole inquadrature. Come sempre, il racconto è costituito da una serie di quadri lunghissimi e sempre statici, costruiti con una plasticità pittorica sublime. All’interno di questi quadri complessi, Diaz usa la luce al posto del montaggio, seleziona, ordina e gerarchizza ciò che dobbiamo guardare. Pennellate di luce e fortissimi contrasti di poesia assoluta, che portano con sé un contenuto forte: The Woman Who Left, infatti, conduce la sua protagonista all’interno di un mondo spaccato in due, in cui il divario tra i ricchi e potenti da un lato e i reietti dall’altro è abissale e inconciliabile, proprio come i bianchi e i neri che la luce divide nettamente in ogni inquadratura.
Horacia esce di prigione nel 1997: un anno chiave per le Filippine, passato alla storia come “l’anno dei rapimenti”, che toccano il numero record nella storia dell’arcipelago. Un anno simbolico, quindi della storia recente del paese di Diaz, che il regista però proietta in una dimensione più ampia e universale sottolineando come questo sia un anno di traumi e cambiamenti per il mondo intero: muore Lady D, muore Madre Teresa di Calcutta, Hong Kong torna ad essere cinese, come dicono radio e TV all’interno del film.
Non solo: i contrasti fortissimi che attraversano le immagini sul piano dell’illuminazione sembrano anche portare con sè il dilemma interiore di Horacia, che oscilla tra le pulsioni vendicative e il desiderio di riconciliazione con il mondo.
Sorretto da attori in forma strepitosa, i cui corpi sembrano parte integrante dei paesaggi urbani e rurali, The Woman Who Left è un film potentissimo, emozionante.
Due scene per un intero festival: Horacia e Hollanda che cantano Somewhere da West Side Story e la struggente danza-camminata finale della donna sui volantini che riportano il volto di suo figlio scomparso.
A Venezia 73 non si è visto di meglio.
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