Nel racconto cinematografico, il “fuori campo” è un elemento determinante. Lo è per la dialettica che instaura con ciò che è in campo, lo è perché rappresenta la porzione di spazio che, in quanto invisibile, stimola la fantasia di chi guarda, lo è al punto che fiumi di inchiostro sono stati versati per cercare di afferrare tutti gli spunti teorici che è in grado di offrire. Il campo/fuori campo di cui intende occuparsi questa rubrica (di cui questo è il primo numero) è quello simbolico, determinato dalla grande distribuzione, dai media e dallo scintillio luccicante delle star hollywoodiane. In altre parole, qui ci occuperemo tendenzialmente di quei film che transitano al di fuori dalla luce dei riflettori.
Ho sempre pensato che uno dei compiti di un critico cinematografico, o comunque di chi ha il privilegio di poter scrivere o parlare di cinema, sia quello di “far vedere” i film, soprattutto quelli che, pur meritevoli, altrimenti rischierebbero di passare inosservati. In questo spazio tenteremo di fare questo: consigliare agli amici lettori titoli poco noti, quasi invisibili, da recuperare e vedere, riporteremo racconti da festival con uno sguardo obliquo che possa suggerire percorsi originali, e conduca, appunto, out the frame, con un un solo comune denominatore: la scoperta.
Ecco, la “scoperta” che oggi vorrei proporre al pubblico newyorchese riguarda un autore che i cinefili più attenti ai palinsesti dei festival, almeno qui in Europa, dovrebbero in realtà conoscere molto bene. Si tratta di un autore sudamericano, ma prima di rivelare nome e ragioni di questo endorsement, andiamo a sottolineare come il 2015 sia stato, cinematograficamente parlando, l’anno del Sud America. Innanzitutto l’industria latino-americana ha registrato una crescita eccezionale, con risultati al botteghino eccellenti, nettamente superiori al 2014, uno scenario nel quale i film locali hanno svolto un ruolo importante. In Argentina, ad esempio, si è registrato un aumento del 20 per cento rispetto al 2014, con il trionfo del thriller El Clan di Pablo Trapero, Leone d’argento alla Mostra del cinema di Venezia e uscito nelle sale newyorchesi proprio in questi giorni (il 29 gennaio), un film duro, ritmato e seducente che merita senz’altro di essere visto.
Un’industria continentale in salute, quindi, anche o soprattutto sul piano artistico, se pensiamo che tutti i maggiori festival europei del 2015 ne hanno sottolineato lo stato di grazia. A Cannes, la quinzaine des réalisateurs ha visto trionfare il bellissimo El abrazo de la serpiente (Embrace of the Serpent negli States, ancora senza una data di distribuzione), film colombiano che racconta la straordinaria storia dello sciamano Karamakate, che guida in epoche diverse due scienziati alla ricerca di una pianta sacra.
Il riconoscimento più alto è stato ovviamente il Leone d’Oro a Venezia a Desde Allà dell’esordiente regista venezuelano Lorenzo Vigas (tradotto letteralmente sarebbe Da lontano, in Italia distribuito con titolo di Ti guardo, ancora senza una distribuzione statunitense) e il Leone d’argento al già citato film di Trapero.
A Berlino, lo scorso anno, se l’Orso d’oro è stato assegnato all’iraniano Taxi, di Jafar Panahi – un premio molto più politico che artistico – decisamente significativi sono stati i titoli, tutti sudamericani, sugli altri gradini del podio. Orso d’argento, infatti, al guatemalteco Ixcanul di Jayro Bustamante, efficacissima opera prima ambientata in una piantagione di caffè ai piedi di un minaccioso vulcano, e premio della giuria (ma primo premio in pectore) a El Club di Pablo Larrain, film e regista su cui vorremmo oggi attirare la vostra attenzione. El club, infatti, uscirà il 5 febbraio a New York e in pochi altri cinema negli Stati Uniti, occasione da non lasciarsi sfuggire. Il film è stato candidato ai Golden Globe come miglior film straniero (sconfitto dall’ungherese Son of Saul di Lazslo Nemes) e ha rappresentato il Cile alla corsa all’Oscar, finendo fuori dalla cinquina delle nomination. Per tutto il 2015 ha fatto il giro dei festival di mezzo mondo, raccogliendo consensi ma incontrando più di qualche difficoltà ad essere acquistato per la distribuzione, dato il tema scaboroso che affronta. Al momento ha visto la luce solo nei paesi di lingua spagnola, in Polonia e arriva ora negli Stati Uniti.
Il film racconta una vicenda in qualche modo complementare a quella del pluricandidato Spotlight: il film di Thomas McCarthy, infatti, racconta lo scandalo dei preti pedofili scoppiato a Boston nel 2001 e dell’omertà della Chiesa a riguardo, scegliendo il punto di vista dei coraggiosi giornalisti che, superando diverse difficoltà, riescono a far “esplodere” il caso sulle pagine del Boston Globe. Il film di Larrain, invece, sceglie il punto di vista di quattro di questi sacerdoti che il Vaticano, nell’ombra, ha rimosso dalla società civile e collocato in una piccola casa di uno sperduto paesino della costa cilena, accuditi giorno e notte da una suora che ha anche il compito di sorvegliarli e fare in modo che non facciano “danni”. Nel loro curriculum, non soltanto l’abominio della pedofilia: questi sacerdoti hanno venduto bambini figli di desaparecidos, hanno supportato il regime di Pinochet, hanno favorito crimini e torture collaborando con l’esercito. Il film di Larrain, che, va detto, è bellissimo ma è anche un pugno nello stomaco, racconta in chiave simbolica l’incontro di questi sacerdoti con il loro “rimosso”: la vicenda si mette in moto quando nel loro ritiro giunge, inaspettata, una vittima, ormai cresciuta, dei loro abusi. Accanto a ciò, le contraddizioni, talvolta inevitabilmente insuperabili, della nueva iglesia di Papa Francesco, qui rappresentata da un sacerdote gesuita che giunge nel “club” per condurre un’indagine.

Pablo Larrain è un regista giovane e fra i più interessanti del panorama sudamericano. Ha 39 anni, cinque film all’attivo, uno stile riconoscibilissimo. Fa un cinema impegnato e militante, riuscendo però ad evitarne i pericoli, le pesantezze e gli stereotipi. Ha un grande senso estetico e accosta come pochi sanno fare una violenza iperrealista ad una capacità di astrazione simbolica che creano un contrasto unico.
In tutti i suoi film troviamo la figura straordinaria di Alfredo Castro, attore feticcio che incarna perfettamente le due anime del cinema di Larrain, quella simbolica e quella iperrealista, appunto: capace di una recitazione controllata e misurata, costruita per sottrazione, riesce a caratterizzare con pochi tratti e con un eccezionale lavoro sul corpo personaggi apatici nei quali scorre però una sulfurea pulsione di morte. Oltre a El Club, in cui interpreta il mefistofelico Padre Vidal, i due ruoli memorabili che Larrain ha cucito sulla sua figura sono quelli in Tony Manero (2008) e Post Mortem (2010), film che consiglio a tutti di recuperare. Nel primo, Castro è Raùl Peralta, un uomo talmente ossessionato da Tony Manero e John Travolta da precipitare in una sorta di psicosi paranoica che lo spinge a commettere crimini sempre più efferati, sullo sfondo degli anni cupi della dittatura di Pinochet (il film è ambientato nel 1979). Il secondo, è ambientato proprio nei giorni dell’altro 11 settembre, quello del 1973, quando l’esercito, guidato dal generale Pinochet, rovescia il governo democratico di Allende in uno dei più sanguinosi colpi di stato della storia contemporanea. Castro è Mario, medico dell’obitorio di Santiago, che nel giorno del golpe inizia a riempirsi di cadaveri. La politica e la rilettura della storia recente cilena sono un tema costante del suo cinema (anche No, del 2012, il meno convincente e il più lineare dei suoi film, racconta il referendum del 1988 che Pinochet fu costretto a indire su pressione della comunità internazionale), un tema affrontato senza sconti e senza edulcorazioni.
Il consiglio di questo primo sguardo fuori campo è di precipitarvi a vedere El Club nei prossimi giorni. Fatemi sapere qui che cosa ne pensate.
Guarda il trailer di El Club>>
I consigli Out of the Frame di questa settimana:
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