Teatro di Roma, il teatro pubblico della Capitale ha riaperto i battenti per la nuova stagione, la seconda firmata dalla direzione artistica di Antonio Calbi. Nell'arco della prima sono state incrementate le alzate di sipario (+240%) e le presenze complessive (+ 155%). In positivo anche la biglietteria, con il raddoppio dei ricavi al botteghino per un totale di 1.651.000 euro. Merito della ricchezza dei contenuti (80 titoli di 75 diversi autori, 67 dei quali contemporanei, un dato quasi unico in Italia e in Europa) e della trasversalità dell'offerta che ha portato, ad esempio, alla creazione di un nuovo pubblico di 20.000 bambini.
Tutto questo a fronte di una distribuzione delle risorse nazionali che penalizza sempre più pesantemente la cultura e il teatro in particolare, e con una riforma, quella del FUS (Fondo Unico per lo Spettacolo) da poco varata, che chiede alle realtà riconosciute un impegno ancora maggiore, senza il necessario supporto.
Antonio Calbi si affaccia al suo secondo anno come direttore artistico, del Teatro di Roma (recentemente riconosciuto dal MiBACT come uno dei 7 Teatri Nazionali) con risultati, numeri alla mano, molto positivi, nonostante le contingenze. Lo abbiamo incontrato e ci siamo fatti raccontare le difficoltà di una gestione che deve contare soprattutto sull’entusiasmo di operatori e artisti, ma anche la soddisfazione di un dialogo diretto e costruttivo con lo spettatore. Auspicando un sistema culturale ed economico che permetta ancora l’esistenza di un teatro vivo, democratico e plurale, luogo di incontro della comunità.
Se aperture, presenze ed attività hanno avuto forti incrementi è soprattutto grazie all’entusiasmo di chi lavora per il teatro e del pubblico che ne apprezza i risultati, ma le criticità che riguardano la riforma e la distribuzione delle risorse sono preoccupanti. Ecco come la nuova stagione si appresta a “fare bene, purtroppo con poco” puntando al dialogo con lo spettatore.
Lo scorso anno il Teatro di Roma ha incrementato parecchi numeri e moltiplicato i tipi di attività. È tutto oro quel che luccica?
“Nonostante la crisi che il paese, e in particolare la capitale vive, il nostro teatro ha avuto un trend positivo lo scorso anno. Era la prima stagione da me diretta, e in genere il combinato di passione, competenza, entusiasmo fa sì che qualcosa accada. Abbiamo aperto il teatro alla città e abbiamo fatto in modo che la città tornasse al suo teatro. Abbiamo voluto ricreare un’agorà e quindi offrire non solo spettacoli ma una serie di accadimenti rivolti alla città stessa. Un esempio per tutti il ciclo Luce sull’archeologia, realizzato la domenica mattina, preso letteralmente d’assalto con code di 1000-1200 persone per un teatro di 700 posti. È evidente che c’è bisogno di cultura, di identificazione, di sentire proprie le istituzioni della città e il teatro in particolare, in quanto arte della relazione, luogo che appartiene a chi sta condividendo lo stesso destino, in cui le comunità si ritrovano e su un palcoscenico vedono ciò che accade loro al di fuori del teatro. Nel momento in cui si vive un disorientamento, si sente più bisogno di teatro: è accaduto durante la crisi del ’29 in America, dove con la Grande Depressione è stata registrata una proliferazione di piccoli e grandi teatri. È accaduto negli ultimi anni in Grecia, dove il Direttore Artistico del Teatro Nazionale di Atene (Yannis Houvardas, ndr) mi ha raccontato di aver avuto un’impennata delle presenze. Da noi nella stagione ’15-’16 si sono registrati il raddoppio degli incassi a botteghino, una grande affluenza alle attività culturali ad ingresso gratuito e più del doppio dei biglietti staccati. Ma siamo nel pieno di una riforma del comparto spettacolo, siamo diventati Teatro Nazionale e con lo stesso budget dobbiamo fare molto di più. Ci sono contraddizioni in tutto questo: abbiamo meno della metà del bilancio del Piccolo di Milano, la metà di ERT (Emilia Romagna Teatro) e dello Stabile di Torino, lo stesso budget del Teatro Stabile di Genova, che non è teatro Nazionale ma TRIC (Teatro di Rilevante Interesse Culturale, nda) e non deve soddisfare tutti i parametri che dobbiamo soddisfare noi. Quindi auspichiamo un sostegno, da parte degli enti territoriali e del MiBACT, più consono al fabbisogno di questo teatro, che è quello della capitale e quindi della Nazione. Verosimilmente chiuderemo in pari anche il bilancio 2015, ma deve accadere qualcosa, altrimenti saremo costretti a cambiare la linea editoriale e fare meno. Certo, alcune correzioni vanno apportate, sia nel percorso artistico che gestionale, ma spero che si arrivi a una visione diversa per quanto riguarda la cultura e lo spettacolo, da parte dei futuri governatori del Campidoglio e del Ministero della Cultura. Non vorrei dover rinunciare alle ospitalità, perché il Teatro di Roma deve potersi confrontare con ciò che viene prodotto in tutta Italia, se una realtà artistica non viene vista almeno su Milano e Roma è di fatto invisibile, e questo è sbagliato”.
E qual è il suo personale bilancio?
“Io sono molto soddisfatto, perché amo questo lavoro e amo il teatro. E quando vedo le platee piene, festanti o pensose, è un obiettivo raggiunto, la missione è centrata. Gli spettacoli sono stati apprezzati, il pubblico è cambiato, ci sono molti giovani, abbiamo visto in scena generazioni diverse, che hanno dato conto di una vivacità del teatro non solo italiano ma anche internazionale. La mia soddisfazione è piena, ma certamente c’è stata una grande fatica per ottenere questi risultati, un sacrificio personale, mio e di tutto lo staff che lavora con me, non irrilevante. Probabilmente era necessario, ma il lavoro è stato enorme, fra l’altro abbiamo ottenuto l’agibilità definitiva per questa sala storica, messo a norma il teatro, riaperto il cantiere del Teatro India (entrambe le sale). Siamo stati seguiti dai media, abbiamo ricevuto apprezzamenti dal pubblico e diversi riconoscimenti: Natale in casa Cupiello diretto da Antonio Latella, che ha fatto tanto discutere nelle cinque settimane di programmazione, ha vinto il premio Le Maschere, l’Oscar del teatro italiano, per la migliore regia, lo stesso Latella ha preso anche il premio della critica per la migliore regia dell’anno. Abbiamo vinto anche Le Maschere per le migliori scene e migliore attore emergente con Der Park di Peter Stein”.
Lei frequenta assiduamente le due sale Argentina e India: quali riscontri ha dagli spettatori che ha incontrato fisicamente in teatro?
“Gli spettatori ringraziano per gli spettacoli visti e riconoscono la presenza di un direttore che contribuisce a creare un luogo familiare, di tutti, un luogo da vivere. Percepiscono un lavoro ispirato da senso di responsabilità e senso civico. Credo infatti che la cultura abbia un ruolo importantissimo anche nella formazione di un buon cittadino, con senso civico e di appartenenza. E Roma difetta di questo, è una città difficilissima, con valori di base ormai intaccati e molta inciviltà, dove ci si lamenta ma si fa poco. L’esempio che abbiamo dato – fare tanto, bene, con poco, tutti i giorni – è un buon esempio. Ci sono stati anche episodi di forte reazione, per esempio spettatori che non hanno apprezzato Go Down, Moses di Romeo Castellucci, con i quali ho intavolato una discussione in platea, anche molto costruttiva, sulle varie forme del teatro. Qualcuno non ha amato il libertinismo, l’irruenza di Filippo Timi nel Don Giovanni, ma sono tutti segnali di un teatro e di un pubblico vivi, sarebbe grave se il pubblico entrasse e uscisse senza lasciare traccia di sé. Non mi sono mai sottratto al dibattito, mi piace e ritengo doveroso confrontarmi con lo spettatore, per me è importante registrare le reazioni, scrutandolo ma anche dialogandoci direttamente. Bisogna ascoltare per capire se le scelte sono state efficaci, se abbiamo osato troppo e dobbiamo mediare o moderare il tiro. Credo che il teatro sia una forma d’arte democratica e plurale, la sensibilità delle persone è diversa, così come il gusto e le aspettative, e il boato dei 20 minuti di applauso per Jan Fabre (con la maratona di 24 ore Mount Olympus il 17 ottobre scorso, nda) o la standing ovation per i fratelli Servillo (Le voci di dentro di Eduardo De Filippo, ndr) o per il nostro Ritratto di una capitale andato in scena due settimane prima che scoppiasse il dramma di "mafia Capitale", ci fanno capire che la strada intrapresa è giusta per un teatro pubblico, che è un teatro di tutti”.
Lei viene dal Nord, c’è davvero tanta differenza rispetto al pubblico romano?
“Sono milanese anche se di origine lucana, vengo da una città non paragonabile: sistema teatrale più solido, pubblico più formato, con un sistema di convenzioni fra governo della città, teatri, compagnie. C’è meno precarietà, più attenzione verso la cultura di quella che ho registrato qui a Roma, che resta ancora provinciale, dispersiva, ma dove tuttavia c’è una parte di pubblico esigente, preparato, che sa il fatto suo e ama vedere le cose belle. È una condizione estemporanea e ci piacerebbe riuscire a formare un pubblico più ampio, più solido nella sua adesione ai fatti teatrali, più fedele. La cultura è importante, ma va difesa, nutrita, sostenuta…. È un lavoro molto difficile in questo momento, in questo paese”.
Fra i vari tratti distintivi del "suo" Teatro di Roma ci sono percorsi progettuali: perché è importante tracciare linee di coerenza all’interno di un programma?
“Perché non bisogna dare l’idea di un cartellone composto in modo casuale. Come ogni fatto artistico riverbera il contesto sociale che lo produce, un cartellone non deve essere combinato prendendo semplicemente il meglio che offre il mercato. Noi direttori abbiamo delle bussole e vogliamo darle agli spettatori. Quest’anno abbiamo voluto indagare alcuni temi: gli Sconquassi americani – un piccolo focus sulla famiglia, che ritroviamo anche nei classici – il filo rosso della stagione, legato a Pasolini nei 40 anni dalla sua uccisione, i teatri del sacro, le donne in scena, Roma, il rapporto padre-figlio, l’omosessualità di The Pride (messo in scena da Luca Zingaretti a novembre). Si può fruire il cartellone in totale libertà, proponiamo un modo di andare a teatro diverso con la 'libertina card', un abbonamento estremamente elastico, che permette di seguire un percorso o essere nomade fra le diverse proposte, da soli o in compagnia. Un cartellone a trama, un tessuto che lo spettatore – non 'pubblico', entità generica, ma individui 'spettatori' con la propria specificità – possa fare e disfare, come un proprio filo di Arianna”.
A quale di questi percorsi è particolarmente legato?
“Pasolini è certamente importante, ma anche quello sulle donne, da Levi Montalcini a Aung San Suu Kyi, quello su Roma, la città e la memoria… sono tanti i tasselli a cui mi sento legato. Anche gli Sconquassi americani, il confronto fra il doppio Miller e Williams, per indagare se oggi la drammaturgia di Miller riverbera ancora così potentemente il senso degli sconquassi, cosa ci racconta con la sua scrittura così alta a distanza di tempo. Il prezzo (in scena fino all’8 novembre) e Morte di un commesso viaggiatore (a dicembre), sono entrambi tradotti da Masolino D’Amico, diretti da Elio De Capitani, già navigato, e Massimo Popolizio, alle sue prime prove registiche, perché è interessante anche capire come uno stesso autore viene affrontato da artisti diversi. E poi Lo zoo di vetro con Arturo Cirillo, più giovane degli altri due, che affronta gli stessi argomenti: il lavoro, la grande depressione, la famiglia come luogo di sentimenti felici ma anche infelici. Un tema che riguarda tutti, ieri e oggi: da noi l’analisi della famiglia l’ha fatta in modo superlativo Eduardo de Filippo e prima ancora Pirandello, in America i due pilastri titanici sono Miller e Williams”.
E la drammaturgia americana contemporanea?
“Stiamo lavorando con Jacopo Gassman, onnivoro lettore e traduttore di autori americani, ci siamo concentrati su una prima selezione di testi fra cui il premio Pulizer Disgraced di Ayad Akhtar, testo molto bello sul tema delle religioni, che cercheremo di mettere in scena nella prossima stagione. Anche attraverso la collaborazione con Monica Capuani, altra suggeritrice di drammaturgie anglofone, spero di poter individuare dei testi. In generale, alla drammaturgia contemporanea stiamo dando moltissimo spazio, l’anno scorso abbiamo presentato una sessantina di autori contemporanei, se consideriamo anche i 24 testi del Ritratto di una capitale”.
Ha mai pensato di ospitare una produzione direttamente dall'America?
“Certo ci piacerebbe moltissimo, contribuirebbe a sprovincializzare Roma, dove si vede molto poco di estero, se non grazie a Romaeuropa, che a settembre ha aperto all’Argentina con il canadese Robert Lepage. Purtroppo le risorse sono molto contenute, servono a tenere aperti i teatri: gestione, manutenzioni, personale. Il budget per la produzione è contenuto, quello per le ospitalità, soprattutto internazionali, ancora di più. Riusciamo a portare qualche compagnia straniera, con grande fatica, in collaborazione con le ambasciate e con partner istituzionali di altri paesi: quest’anno abbiamo lituani, una compagnia italo-armena, Daniel Pennac, un pezzo del “Mahabharata” di Peter Brook. Una nostra produzione (Sweet Home Europa di Davide Carnevali) è stata a Parigi lo scorso giugno. Alcune realtà – il Canada, ad esempio – investono tantissimo, sostengono gli artisti, mentre l’America, non avendo un sostengo pubblico sistemico, vive soprattutto di fondazioni private e difficilmente dispone di fondi per l’estero. Il sogno è quello di accogliere più realtà internazionali, anche perché il teatro negli Stati Uniti ha una centralità che noi ci sogniamo e un proliferare di autori, e il fronte degli scambi internazionali è da sviluppare. Ma è una questione di risorse, non di volontà o di rapporti, siamo rientrati pienamente nell’UTE (Unione Teatri Europei) e stiamo creando altre partnership. Purtroppo non abbiamo solidità rispetto ad altri Paesi d’Europa e del mondo, viviamo in un momento difficile, la città verrà commissariata e questo complicherà ulteriormente le cose”.
Parlando di risorse, dove è realisticamente possibile trovarle e qual è un sistema verosimilmente attuabile in Italia, secondo lei?
“È un discorso molto complesso, l’Italia ha una vivacità di compagnie, artisti, teatri notevole, ma il sostengo non è adeguato o comunque è distribuito ancora in modo incongruo, non sistemico. Confidiamo che il decreto della riforma del FUS – che si spera sia in fase di sperimentazione per il triennio 2015-17 – produca una razionalizzazione e uno scatto in avanti, ma non ne siamo sicuri perché si sono aperte molte criticità e sono state sollevate moltissime critiche, quindi è prematuro capire dove andremo. Certamente i teatri devono aumentare l’autofinanziamento, essere pieni senza abbassare la qualità, senza andare incontro ai gusti più corrivi del pubblico; la grande sfida è tenerli aperti tutto l’anno con novità, un pubblico pagante ed entusiasta, però le istituzioni devono fare il loro dovere e anche i privati. Oggi a Roma è più facile che un investitore privato dia il suo sostegno a un museo o a un teatro d’opera che a un teatro di prosa, in questo senso di strada da fare ce n’è tanta, si è perduto diffusamente il senso alto del teatro e la sua centralità nelle comunità. Questa va recuperata e nel momento in cui si vedranno i numeri e i successi, forse la timidezza, la distrazione o l’indifferenza di tante fondazioni bancarie o imprese private (penso al mondo della moda o a certo mondo produttivo più vicino alla cultura) dovrebbe mutare. Ci deve essere un buon sistema politico, una visione di politica culturale a lungo termine, innovativa, solida, investimento pubblico, il coraggio dei nuovi direttori, un po’ di sana ambizione e la seduzione di partner che non vedano nel teatro una forma d’arte noiosa ma qualcosa che produce vivacità, benessere, una città più bella, più sana, più viva. In questo momento Roma è invece piuttosto depressa”.
Torniamo al Teatro di Roma: qual è il primo obiettivo della stagione in partenza?
“Viste le ristrettezze economiche, portarla a termine con lo stesso entusiasmo che abbiamo avuto la scorsa stagione, conquistare un nuovo pubblico, far capire a chi arriverà a governare la città il ruolo centrale del teatro e della cultura in generale. Fare bene, purtroppo con poco. Alla fine del secondo anno capiremo se si riuscirà a sopravvivere o meno, se riusciremo a soddisfare i parametri ministeriali. Sprechi qua e là ci sono, comparti che beneficiano di risorse ben diverse, e dovremo anche combattere affinché ci sia un riequilibrio nella distribuzione delle risorse pubbliche”.
Ultima domanda, d’obbligo: che notizie del Valle?
“Nessuna notizia, pensavamo in questi giorni di scrivere al ministro per sollecitare la questione. Per quel che mi risulta il Valle è ancora proprietà del demanio pubblico, so che c’è stato un intoppo nel passaggio di proprietà, noi siamo solo i custodi in questo momento, ma senza strumenti, su mandato del Campidoglio. I lavori non sono iniziati e non sappiamo nulla, peraltro noi avremmo veramente bisogno di una seconda sede centrale – come il Piccolo di Milano. Siamo in una situazione di stallo, imbarazzante, che va sbloccata”.
La stagione intanto è ripartita confermando nelle proposte entusiasmo ed impegno verso il nuovo, il contemporaneo e la trasversalità dell’offerta, sia all’Argentina che nelle sale dell’India.
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