Le parole, come si sa, sono importanti. E, nonostante ogni diffuso impegno per svilirle, tali restano. Consideriamo la parola mafia. Deve la sua importanza al sangue versato per imparare a conoscerla. Non esiste, è un formaggio, è un aggettivo qualificativo per designare qualità positive, è la morte. Dopo un pò si è capito. Una volta definito il suo significato, vale a dire, ciò di cui è segno, nasce il problema morale: è un bene, è un male? E’ un male, dato che è segno di morte. Sembra facile. E la morte è il maggiore dei mali e, se non il maggiore, fra i maggiori (anche per chi ne fa veicolo di trascendenza, una brutta morte -nel peccato, come si dice- è il maggior male: perchè diviene veicolo di dannazione eterna). Perciò siamo d’accordo che la Mafia, che usa la morte come il fabbro il martello o il falegname la pialla, è un gran male.
Primo corollario: le parole sono importanti se e quando sono vere.
Ad un certo punto, tuttavia, i morti cominciarono a diminuire, e anzichè compiacersene, ad alcuni (sguardo sabaudo, quindi acuto per definizione) sembrò che la parola mafia avesse perso nerbo connotativo e se ne propose una moltiplicazione: se al singolare mostrava il fiato corto, al plurale avrebbe potuto riacquistare la primitiva vigoria. Si è cominciato a parlare di mafie: al plurale. Finchè, nell’Ottobre 2011, intervenendo ad un convegno intitolato “Mafie 2011: legalità e istituzioni”, la pm Ilda Boccassini chiese piuttosto polemicamente: “Perché mafie al plurale? Io ne conosco solo una, anche perché, come ricordava Falcone, se tutto è mafia, nulla è mafia”. Lungo questo solco nichilista pare si sia adagiata anche l’ultima Commissione Antimafia che, in realtà è una Commissione Antimafie, al plurale pure lei. La sua legge istitutiva così, testualmente, recita: “Legge 19 luglio 2013, n. 87: Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere”.
Secondo corollario: la parola è un congegno delicato: basta poco, perché rischi di rompersi.
Mafia Capitale non è un nome al plurale: è una variante. Ma è ugualmente una deviazione dal significato certo, quel “solo una”, cui si riferiva il noto magistrato.
Negli ultimi mesi, a lungo ha campeggiato la riforma dei delitti di corruzione, la riforma è stata varata, le pene sono state inasprite; esiste pure un Autorità Anticorruzione; Francesco I certifica che “la corruzione spuzza”, il Presidente Mattarella esorta ad essere “severi conto corruzione e illegalità”; le indagini della Procura di Roma riguarderebbero pubblici ufficiali, titolari di cariche pubbliche elettive, amministratori. Insomma, non mancavano le norme, le cattedre o i pulpiti, né, come dire, la tendenza socialcivilistica. Nonzi: mafia è.
Terzo corollario: la mafia non è più quella cosa che ebbe contatti con i comandi di Roosevelt e Churchill; che, solo nei cinquant’anni dall’operazione Husky (Luglio 1943) a Via Palestro (1993), ha ucciso, a mano, con nastri, funi, fil di ferro, con pistole, fucili con e senza canne mozze, Kalashnikov, bombe, a mano e radiocomandate, sindacalisti, poliziotti, carabinieri, magistrati, giornalisti; lasciando sul selciato almeno quattromila persone: quando non ne ha squartato i cadaveri (bambini compresi), interrandoli o sciogliendoli nell’acido o immergendoli tutti interi nel cemento armato; che, per tutta la Guerra Fredda, sarebbe stata persino pedina feroce, per quanto periferica, di un certo atlantismo oltranzista; movimentando (e spesso millantando) greggi elettorali; che avrebbe istituito sulle due sponde dell’oceano, per almeno trent’anni, il più vasto e ricco cartello nel reperimento, nella raffinazione, nella distribuzione di oppiacei di ogni specie, venendo a capo di traffici per varie migliaia di miliardi di vecchie di lire (o di milioni di dollari), agendo, a riciclaggio, come concorrente sleale e, spesso, fagocitatore, nel settore edile e derivati, e poi nel commercio.
Niente da fare. E’ ora una cosa che può contemplare anche una cresta di un euro per immigrato, su rimborsi o altre provvidenze previste per fronteggiare umanitariamente il problema migratorio; che vanta basi logistiche en plein aire, presso un distributore di benzina; che risuona di spacconate da bar dello sport. E, si badi, mentre si mantiene a Palermo l’ipotesi che abbia potuto porsi, da pari a pari, con le Istituzioni della Repubblica, implicando ministri, vertici dell’amministrazione centrale, parlamentari, persino indirettamente due Presidenti della Repubblica. Dal Palazzo alla Colonnina.
A volte qualcuno, in vena di amenità, fa notare che l’art. 416 bis del Codice Penale reca la dizione “associazione di tipo mafioso” e non “associazione mafiosa”. Come dire: non una e basta, ma ognuna che assomigli all’archetipo. Sarebbe un girogiro tondo: l’archetipo non faceva (né fa) le creste da un euro.
Allora l’unica domanda che resta da fare è: perché? La sgradevole impressione è che, questa fantomatica Mafia Capitale, non c’entri nulla col sottobosco di Roma: il quale, per inciso, essendo il sottobosco di una città Capitale di Stato, sarebbe popolato di sant’uomini, se questo fosse tutto; rispetto a quello che, ad esempio, vi è a Washington e Londra e che vi parte e vi arriva. Senza scomodare le guerre e l’illecita compravendita di armi indotta e accessoria, senza considerare il credit crunch, si potrebbero considerare i banalissimi omicidi e le implicazioni criminali delle complesse stratificazioni sociali (a Washington -vero New York Times che da lezioni?- nel 2008, circa 60.000 residenti erano ex detenuti), per trarne il timore che la scelta della Procura di Roma serva come il plurale della Commissione Antimafie: moltiplica le mostrine, annulla la verità.