È da poco trascorso il 2 giugno, ricorrenza della dichiarazione della Repubblica Italiana. La città di New York, attraverso le istituzioni che rappresentato il governo italiano (Istituto Italiano di Cultura e Consolato italiano, ICE, ENIT), ha offerto una serie di eventi, premiazioni e commemorazioni che sono state ampiamente coperte da questo giornale. Il tutto ha anche coinciso con il festival del cinema contemporaneo italiano Open Roads che si tiene ogni anno al Lincoln Center, anche quello seguito da La VOCE con una serie di interviste ai protagonisti. Tutti eventi che hanno portato l’ attenzione sull’Italia e la sua cultura.
Ho partecipato a uno di questi eventi, quello tenuto all’ICE, a seguito del gentile invito di rappresentare la mia università, soprattutto le iniziative e progetti legati allo studio della moda e della sua cultura, in cui si studia l’ Italia e il Made in Italy in una prospettiva transnazionale. C’erano con me degli studenti sia dal Queens College sia dal programma di Fashion Studies che dirigo al Graduate Center della CUNY. Un paio di studenti hanno presentato un progetto realizzato per i corsi in Digital Humanities e il seminario da me condotto su New York, Fashion Capital: una “living map” della città e dei suoi sobborghi attraverso le immagini di Instagram, cui presto affiancheremo una città italiana (si può partecipare al progetto sul sito Internet dello stesso).
Un evento, quello dell’ICE, a cui mi ha fatto piacere partecipare e che spero possa continuare attraverso il dialogo tra le istituzioni che rappresentano il governo italiano, le università e il territorio. Insieme alla mia università c’era anche Montclair State University e la collega Teresa Fiore che ha presentato l’interessante progetto Business, Italian Style svolto, in collaborazione con La VOCE di New York, durante questo anno accademico.
Il programma di questo 2 giugno dell'ICE ha avuto uno stampo diverso dagli altri anni, perché di solito le università non sono presenti nell’ambito di un'istituzione che si occupa soprattutto di commercio estero. Ma questo, a mio avviso, è un errore, dal momento che oggi più che mai non si può pensare di separare il mondo del business dalla cultura. E non solo perché stiamo attraversando una forte crisi nelle scienze umane all’interno delle università americane e quindi ci si vuole attaccare a una scialuppa di salvataggio. Un dialogo reale in cui si mettano in discussione transenne disciplinari e di potere sia all’interno dell’organizzazione del sapere, sia nella programmazione dei corsi di laurea, che nella comunicazione tra le istituzioni governative che rappresentano l’Italia all’estero è più che mai doveroso. Nella mia ventennale carriera di docente universitaria qui a New York, non mi sembra che ci sia mai stato un piano e una visione lungimirante per agire sul territorio e sulla formazione di nuovi quadri intellettuali e professionali in cui si lavora insieme dividendosi compiti ed esperienze e soprattutto conoscenze sul campo, idee per rinnovare e cambiare lo status quo. Mi sembra che a volte ci sia un eccessivo spreco di energie.
Infatti a parte il piacere delle conversazioni durante le celebrazioni, sarebbe auspicabile che a queste facciano seguito la creazione di laboratori di ricerca che possono essere coordinati senza troppa difficoltà con i docenti delle varie università presenti sul territorio di New York e dintorni. Questi laboratori possono collegarsi a corsi che già si offrono e pensarne magari altri innovativi che possano usufruire e collegare le varie risorse già presenti sul territorio. Collegare università e territorio significa creare ponti di lavoro e scambi di esperienze.
Ci si stupisce, per esempio, che a parte gli eventi che ruotano intorno a presentazioni, dibattiti e promozioni, non ci siano degli organi che prevedano un uso delle competenze intellettuali e professionali di docenti delle humanities, quelli delle scienze e scienze sociali. Sarebbe interessante vedere che tipo di sinergia potrebbe portare questo tipo di organo che dovrebbe agire per coordinare le iniziative e i progetti sotto l’ombrello dei vari istituti che rappresentano l’Italia. Perché per capire il mondo del business, il ruolo delle esportazioni, la tecnologia; il ruolo delle humanities, della letteratura, della cultura, delle arti è fondamentale. Nel corso di molti anni di lavoro all’interno dell’Università e nella libera professione ho sviluppato l'impressione che non sia molto semplice stabilire dei contatti che durino nel tempo e che possano prevedere un lavorare insieme e collaborare per promuovere lo studio dell’Italia, della lingua italiana e della ricca cultura di cui è espressione. Ci sono naturalmente persone validissime e altamente competenti ma quello che trovo complesso è proprio un lavoro di connessione per un programma ad ampio respiro, che abbia una visione su tempi più ampi e non solo legata alla contingenza di questo o quell’evento, celebrazione o visita di un personaggio famoso della politica o dello spettacolo.
Queste riflessioni non sono mirate alla pratica consolatoria del piangersi addosso, anzi, esattamente il contrario. Sarebbe bello infatti pensare che si possa fare qualcosa allontanandosi dalla grigia burocrazia e dal professionismo della politica. Un piccolo sogno impossibile. Un'utopia?
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