Gli abiti sono imprenscindibili dal nostro essere al mondo, dalla interazione sociale e dai processi identitari. La moda è una forza economica che insieme all’industria tessile hanno contribuito alle grandi trasformazioni economiche, culturali, sociali e naturalmente alle grandi rivoluzioni industriali. Sia nel passato che nel presente.
In un presente in cui il mondo è minacciato dallo spreco, da un consumismo eccessivo, da un populismo dilagante, nuove forme di razzismo e fascismo, un capitalismo sfrenato, il futuro sembra essere sempre più incerto. I ricchi diventano più ricchi e i poveri rischiano di perdere la possibilità di uscire da situazioni che impediscono loro la partecipazione a una cittadinanza libera e democratica.
Un mondo che deve affrontare l’emergenza delle migrazioni e l’Italia è oggi uno dei paesi più importanti in questa mappa. Ma insieme agli orrori del presente e gli errori del passato ci sono altri desideri, progetti e iniziative che stanno man mano emergendo e che vogliono contrastare questo tipo di progresso e offrire delle alternative che recuperando le tradizioni, la bellezza, la cultura del rispetto e la dignità umana. Questo è il caso offerto dalla “Ethical fashion initiative.”

Le parole moda etica potrebbero sembrare un ossimoro visto che la moda si è spesso macchiata di tragedie che hanno colpito gli operai, soprattutto donne che sono morte per le condizioni subumane del posto di lavoro, molto spesso a produrre indumenti per noi occidentali che vivono nel benessere.
La moda può essere elitaria e democratica, totalitaria e liberatoria, esprimere soggettività individuali e collettive ed oggi più che mai nel mondo globalizzato ovunque e in tutti i tipi di media. Una ragione in più per non considerare la moda qualcosa di effimero ma anche una ragione in più per studiarne la sua complessità ed educare, formare e informare le nuove generazioni. Quali storie si nascondono in una semplice T-Shirt oppure in un paio di Jeans? Non solo un “mondo indossato” come direbbe il critico Peter Stallybrass ma anche la storia della globalizzazione. Si veda qui.
Come è possibile tollerare che nel 21 secolo possano succedere disastri come quello di Rana Plaza che ricordano purtroppo altre tragedie di un secolo fa? L’incendio della fabbrica delle camicette da donna a New York, nel 1911 in uno degli edifici che ora appartengono alla New York University. Quella fabbrica produceva uno degli indumenti che ha contribuito alla nascita dell’industria dell’abbigliamento Americano.
Gonna e camicia era la divisa delle donne che lavoravano fuori casa, le stesse operaie che le producevano, e permetteva loro uno stile comodo, enfatizzando allo stesso tempo la loro femminilità o come dice la storica Americana Nan Enstad la loro “signorilità” (Ladyhood). La moda è amata e odiata per ragioni diverse e soprattutto detestata se si pensa al lavoro inumano che ancora oggi sembra devastare questa industria.
Ma la moda proprio per il suo potere e la sua potenziale bellezza può anche fare molto e potrebbe ancora far di più per contribuire a cambiare e a lottare per la giustizia sociale e diminuire se non un giorno eliminare la povertà nel mondo. Certo, questo sembra un sogno utopico in uno dei più complessi e problematici periodi della storia.

Alla Casa Italiana Zerilli- Marimò della New York University si è svolta un’iniziativa molto importante e ricchissima, dal titolo “Sustainability of Ethical Fashion in Our Brave New World”, che ha aperto la finestra sulla moda etica. Il direttore Stefano Albertini ha salutato il pubblico con il suo abituale savoir faire seguito dall’intervento di Jenny McPhee, direttrice del Center for Applied Liberal Arts che, con la collega Robyn Vaccara dell’American Language Institute, ha organizzato l’evento per la NYUSPS Division of Languages and Humanities. Questa iniziativa è la seconda nell’ambito del “Dialogues in Languages and Humanities”. Secondo McPhee questo tipo di iniziative hanno lo scopo di promuovere il confronto su conversazioni anche in parte controverse ma che proprio per questo possono provocare in chi vi partecipa ad agire con una nuova coscienza. Non potrei essere più d’accordo con questo importante progetto.
McPhee ha aggiunto che il soggetto della moda etica sembra essere un tema particolarmente importante per il progetto di lanciare un Master in “Applied Fashion Merchandising” nella School of Professional Studies alla NYU in un prossimo futuro.
Il panel aveva un coordinatore di eccezione. Simone Cipriani, il direttore e il fondatore dell’ “Ethical Fashion Initiative” un ente legato all’international Trade Center, che unisce le Nazioni Unite e il World Trade Organization. Simone, nato in Toscana, con alle spalle una lunga storia nell’ambito dell’industria del lusso e della pelle, con questa iniziativa dirige e promuove la creazione di micro business all’interno di comunità marginalizzate in Africa e Haiti mettendo in rapporto questi artigiani con designers di fama internazionale come per esempio Vivienne Westwood, Stella McCartney, Ilaria Venturini Fendi e altri. Cipriani ancor prima di aver fondato l’ Ethical Fashion Initiative, aveva a lungo lavorato nei paesi in via di sviluppo per utilizzare il potere della moda come possibilità per uscire dalla povertà. Lavorando con gli artigiani locali e connettendoli alla filiera della moda.

Dalla nascita di questa iniziativa nel 2004, è dunque riuscito a creare un centro per una manifattura creativa nel campo dell’abbigliamento e accessori usando delle pratiche di “fair trade labour” (una manodopera che rispetti le regole di un commercio equo e solidale) e moda etica. Le iniziative di Simone Cipriani sono molte per poterle elencare qui in questo breve articolo, ma basti pensare a quelle che sono legate alla moda italiana come la sua collaborazione con Alta Roma, Pitti Uomo, Vogue Italia e Corso Como. Proprio alle sfilate di AltaRoma ha portato designer africani ma ha anche contribuito a lanciare la designer Stella Jean che ha ormai raggiunto fama internazionale.
Simone Cipriani, col consueto carisma, ha introdotto con entusiasmo gli speaker del suo panel che hanno ognuno di loro introdotto le loro storie tutte distinte non solo per geografia ma anche per esperienza, arte e modo di lavorare. Gli ospiti erano Oskar Metsavaht, artista e fashion designer, che ha fondato Osklen; Zolaykha Sherzad, un’artista umanitaria e che ha fondato e dirige “Zarif Designs” una compagnia di base a Kabul in Afghanistan, il suo paese natale; Andrew Ondrejcak, direttore creativo, regista teatrale e artista di base a Brooklyn; Molly Yestadt, fashion designer e fondatrice di “Yestadt Millinery” anche lei di base a Brooklyn; Valeria Safronova, fashion columnist per il New York Times, Leonardo Amerigo Bonanni, fondatore & CEO di Sourcemap, una piattaforma per un software che traccia la mappa della filiera.

Gli interventi brevi ma molto ben calibrati per far comprendere la portata dei loro progetti sono stati accompagnati da video e immagini che hanno dato una idea tangibile del loro lavoro estetico ed etico. Ma direi soprattutto dell’attenzione a costruire dei ponti duraturi di collaborazione e di lavoro con popolazioni meno fortunate ma anche di viaggi e incontri che nel loro farsi cambiano le idee degli stessi partecipanti, che si maturano insieme e così inaugurano nuovi percorsi. Ma questi nuovi viaggi tendono a cambiare lo stato delle cose, a cambiare la natura stessa degli interventi. I partecipanti al panel e Cipriani stesso sottolineano che non si parla di “carità” ma di lavoro. E c’è una gran differenza tra le due. Perché la carità si associa alla mentalità del colonizzatore su chi vuole colonizzare. Qui il rapporto è totalmente diverso. È un incontro con l’altro di cui si ha rispetto ma che si ascolta elaborando una lingua comune in cui entrambe le parti si arricchiscono creando nuove forme di aiuto che devono andare oltre le forme di “colonialismo” e di “razzismo”.

Per Zolaykha Sherzad, recuperare le antiche tradizioni tessili in Afghanistan ha significato molte cose, per lei che ritorna nel suo paese devastato da molte guerre e soprattutto all’indomani della vittoria dei Talibani che hanno annichilito la soggettività delle donne. Lavorare nel suo workshop a Kabul, usando le tradizioni per creare il nuovo come la linea dei suoi cappotti che hanno origine nel chapan è stato come restituire memoria e identità alla sua gente. Attraverso il fare questi capi ha significato ricucire letteralmente e simbolicamente i frammenti della sua storia e quella del suo paese, ma anche un processo di cura (Healing process) e di credere in se stessi e in una riacquistata dignità e bellezza.
Ed è con queste parole e con questo auspicio che vorrei concludere. Le mani diceva il filosofo Kant sono la finestra della mente. Le mani artigiane tendono a costruire un nuovo futuro e inaugurare delle pagine nuove. Lavorare insieme, lavorare per una nuova filosofia che possa cambiare la cultura e l’economia.
Sotto il video completo dell’evento: