Ci sono letture che fanno stare bene e Le nostre anime di notte è proprio una di queste. Ultima fatica di Kent Haruf (1943-2014), uscita negli USA nel 2015 e recentemente tradotta in italiano dalla NNEditore, giovane casa editrice che si è assicurata tutta la produzione dell’autore. È un’opera delicata e toccante e presto diventerà un film con Robert Redford e Jane Fonda.
Dopo Stoner di John E. William, siamo di nuovo alle prese con esistenze ordinarie. Siamo, più precisamente, nella periferia americana, in una small town immaginaria del Colorado chiamata Holt (in coda al romanzo troviamo persino una mappa con le strade della cittadina che si incrociano ad angolo retto, i negozi e le case dei protagonisti). Al centro dell’attenzione, come spiegato da Cathy Dempsey (la moglie dello scrittore), che ha curato la pubblicazione di questo suo ultimo romanzo, vi è sempre la condizione umana. La location, una cittadina e non una grande metropoli, ha ovviamente la sua importanza. Anzi, è talmente importante che Haruf non se ne è mai allontanato. Ma le vicende che vi si svolgono, così poco caratterizzate in senso storico e/o geografico, non sono in fondo molto diverse da quelle che potremmo sentirci raccontare dal nostro barbiere, il che le rende molto universali.
Le nostre anime di notte, ideale prosieguo e insieme suggello della Trilogia della Pianura, composta da Canto della Pianura, Crepuscolo e Benedizione (sempre pubblicata in Italia da NNEditore, anche in cofanetto), poggia su un’idea narrativa “forte”: due persone anziane, due vicini di casa che vivono soli, che un po’ si conoscono ma che non si sono mai davvero frequentati, decidono di condividere le loro notti. Senza sottintesi sessuali. Il tema è quello della lotta alla solitudine, condotta principalmente con lo strumento della parola.
“Mi sento sola”, dice Addie Moore a Louis Waters come lei un vedovo. “Penso che anche tu lo sia. Mi chiedevo se ti andrebbe di venire a dormire da me, la notte. E parlare”.
La proposta viene accettata, con qualche esitazione: “E se poi russo?”. “Vorrà dire che russi. Oppure imparerai a non farlo”.
È bellissimo questo “parlare” nell’era dei social network (per non dire degli hikikomori, i ragazzi che in Giappone si chiudono nelle loro camere e non escono più). Dunque siamo animali sociali, dopotutto. Fino alla fine.
Pian piano dalle conversazioni dei due protagonisti emergono i momenti più significativi delle loro vite. L’uno e l’altra in parte già li conoscevano, compresi i segreti, che in una piccola città non sono mai tali (ad esempio un’infedeltà di Louis che aveva rischiato di compromettere il suo matrimonio, e di cui Holt a suo tempo aveva ampiamente sparlato). Ma a casa di Addie, sotto le coperte, quegli episodi diventano al tempo stesso una rivelazione (nei confronti dell’altro/a), e un bilancio (con sé stessi). A un certo punto in questo strano e originale rapporto si inserisce un terzo elemento, un bambino, nipote di Addie. E così i due anziani riscoprono, con l’intelligenza e la sensibilità accumulate in una vita, le gioie e gli inciampi della genitorialità.
Ci sono, in questa vicenda, echi de Canto della pianura, evocato infatti verso la fine in una ironica autocitazione. Lì l’esistenza di alcune persone viene trasformata da un gesto di benevolenza: due anziani agricoltori, i fratelli McPheron, accolgono la sedicenne Victoria Roubideaux, cacciata di casa dalla madre dopo essere rimasta incinta. In quel romanzo ci sono persone che dedicano gran parte della loro vita al lavoro. Qui invece siamo un po’ oltre: le storie professionali dei protagonisti rimangono ormai alle spalle, così come i sogni e le ambizioni coltivate in gioventù, per Louis persino quella di diventare poeta (ambizione incongrua in una cittadina di bottegai e allevatori).
Non diremo altro su queste “anime salve”, anche perché non c’è molto altro da dire, a parte che un ulteriore tema toccato da Haruf, forse più consueto, è quello dell’accettazione sociale di un comportamento anticonformista. La gente mormora, a Holt come ovunque. Nemmeno in questa periferia occidentale, in questo microcosmo in mezzo alla pianura, apparentemente lontano dalle tensioni, apparentemente “protetto”, si può essere lasciati in pace ad esplorare, con discrezione, nuovi stili di vita che non fanno male a nessuno. Anche qui possono insinuarsi il sospetto, la malevolenza, il moralismo.
Si dice che ogni vero scrittore costruisca non delle storie, ma un proprio universo di parole. Se è così, Haruf ne costruisce uno semplicissimo, più ancora di quello (solo a prima vista) minimale di Carver/Lish. Forse, nonostante le iperboli delle alette di copertina, non siamo al cospetto di uno dei più grandi autori americani. Tuttavia, Haruf ha una sua personale poetica, sincera, schietta, riconoscibile. “Non abbiamo fretta”, disse lui. “No, prediamoci il tempo che ci serve”.
Questo libro è stato il più venduto nelle librerie italiane (classifica Nielsen, esclusi quindi altri circuiti di vendita) a metà febbraio, e poi ha continuato a veleggiare nella parte alta delle classifiche. Per l’opera di un autore straniero, per giunta mediaticamente non-famoso, è un grande exploit, che conferma il gradimento dei lettori del Belpaese già manifestatosi per i tre libri precedenti di Haruf.
Kent Haruf, Le nostre anime di notte, NNE, 2017, trad. Fabio Cremonesi.
Negli USA, Our Souls at Night, Alfred A. Knopf-Random House LLC, 2015.