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January 24, 2015
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January 24, 2015
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Pazzi da emigrare: la psicologia degli immigrati italiani a New York in uno spettacolo e un dibattito

Maurita CardonebyMaurita Cardone
Una scena dello spettacolo Snow Orchid per la regia di Valentina Fratti. Foto: Genevieve Rafter Keddy

Una scena dello spettacolo Snow Orchid per la regia di Valentina Fratti. Foto: Genevieve Rafter Keddy

Time: 6 mins read

 

Dell’esperienza dell’emigrazione-immigrazione tanto si è detto e scritto ma di quel processo di trasformazione restano tuttora in ombra le conseguenze psicologiche. Eppure il distacco, l’abbandonare ciò che si conosce per l’ignoto, il lasciare le sicurezze per una realtà in cui bisogna reinventarsi e ricostruire una propria identità, è un processo spesso traumatico e comunque denso di implicazioni psicologiche complesse. 

Su questo processo apre una finestra uno spettacolo teatrale scritto da Joe Pintauro nel 1982 e riportato ora in scena dalla regista Valentina Fratti. Snow Orchid, che sarà al The Lion Theatre dal 3 al 28 febbraio, racconta di una famiglia italo-americana di Brooklyn che, nel 1964, si trova a dover fare i conti con l’esaurimento nervoso di un marito e padre violento, afflitto da stress post traumatico, mentre la moglie, Filumena, si strugge di nostalgia per la sua natia Sicilia.

Lo spettacolo è stato lo spunto giovedì sera per una discussione dal titolo Psychological Challenges of Immigrant Life in the 21st Century, la prima di una serie di conversazioni organizzate dal Calandra Italian American Institute in collaborazione con l‘Italian Language Inter-cultural Alliance (ILICA). Una serie di incontri fuori cartellone o “fuori collana”, come li ha definiti Anthony Tamburri, dean del Calandra, pensati per aprire un dibattito su aspetti poco esplorati della cultura italiana in America.

“Vogliamo presentare l’Italia così come è oggi” ha detto Vincenzo Marra, fondatore di ILICA, nel suo intervento in apertura dell’incontro, seguito dalle parole di Donna Chirico, fresca di nomina a presidente della fondazione, che ha ribadito: “Dobbiamo creare un dibattito globale in cui l’Italia deve poter dare un contributo. Tutto quello che sentiamo riguardo l’Italia è sempre legato al passato, ma c’è dell’altro e dobbiamo ricordarcelo in modo che l’Italia non perda il suo posto nel futuro”.

panelLa serata ha aperto molti spunti di discussione interessanti con interventi dal focus clinico-accademico da parte dei panelist che hanno illustrato alcune delle principali problematiche legate all’esperienza emigratoria-immigratoria, concentrandosi in particolare sulle peculiarità della comunità italo-americana.

Maria Grace La Russo, consulente all’Hunter e Lehman College, specializzata in dinamiche delle famiglie italo-americane, ha illustrato alcuni aspetti caratteristici dell’italo-americanità, riscontrati nel corso delle sue ricerche e del suo rapporto con i pazienti. Dalla riflessione di La Russo è emerso che, in caso di disturbo mentale di un membro della famiglia, è raro che i nuclei familiari di origini italiane cerchino aiuto da parte di uno specialista: “C’è una tendenza a stigmatizzare la malattia mentale e a tenerla nascosta”. Un altro pattern ricorrente nelle famiglie italo-americane è infatti quello del “segreto”: tipico della cultura italiana, il segreto di famiglia, lo scheletro nell’armadio di cui non si parla per paura del giudizio sociale e per proteggere la famiglia da fattori dal potenziale disgregante, complica non poco le dinamiche, quando il nucleo familiare viene sradicato ed esportato in un contesto nuovo. Tra i segreti più comuni, incontrati nel corso della sua esperienza professionale, La Russo ha elencato le malattie mentali, i suicidi, le dipendenze, gli abusi sessuali, gli aborti, le relazioni extra coniugali e figli risultanti da queste relazioni. Il disagio e la diversità, in genere, non sembrano trovare una collocazione né un’accettazione nelle comunità italiane emigrate.

La conseguenza sono nuclei familiari disfunzionali in cui emergono rabbia, conflitto e senso di tradimento: “Nonostante in teoria la cultura italo-americana professi i valori della famiglia tradizionale – ha proseguito La Russo – si riscontrano spesso rabbia e senso di tradimento. Moltissimi sono i casi in cui qualcuno viene tagliato fuori dalla famiglia, il che riflette l’incapacità a perdonare e la persistenza del risentimento”.

Che tali sentimenti e fenomeni siano esclusiva degli italiani è difficile dirlo, ma certamente alcuni tratti della cultura d’origine tendono ad esacerbarsi nel momento in cui vengono inseriti in contesti ristretti e tendenti all’isolamento.

E tra i fattori di isolamento c’è quello della lingua. Nel corso della serata è stato evidenziato anche come le idfficoltà linguistiche possano acuire il senso di estraneamento e le difficoltà a inserirsi in un nuovo contesto sociale con conseguenze psicologiche spesso gravi. Elementi che oggi sono forse meno problematici negli immigrati di nuova generazione ma che sarebbe superficiale accantonare come ininfluenti.

locandina

La locandina dello spettacolo Snow Orchid, al The Lion Theatre a febbraio

Joe Pintauro, autore del testo, ha sottolineato il senso di dissociazione legato all’essere italo-americani, una conflittualità interiore che però, ha aggiunto, non è esclusiva di questo gruppo etnico: “Non è facile essere italo-americani, ma in realtà non è facile essere niente in questo paese. La multiculturalità genera una sorta di incoerenza”.

L’autore ha poi ricordato come è nato Snow Orchid: “Lavoravo in un centro di assistenza sociale e ogni mattina una donna si sedeva sugli scalini fuori dal centro e piangeva, mugulando: ‘voglio andare a casa’. Tutti pensavano fosse pazza. Al tempo c’erano degli psichiatri che lavoravano pro bono con gli italo americani così segnalai loro il caso della donna e, dopo averla incontrata, mi dissero che non c’era alcuna malattia mentale ma che semplicemente la donna soffriva di nostalgia di casa. Quella fu la prima ispirazione per scrivere questo testo, cui poi si aggiunsero altri elementi”. Non è raro, è emerso nel corso del dibattito, che il senso di sradicamento si trasformi in un disagio al limite con il disturbo mentale e la non accettazione del disagio da parte della comunità di appartenenza rischia di peggiorare le cose.

A chiusura dell’incontro è intervenuta la regista Valentina Fratti che ha voluto sottolineare come sia necessario provare a mostrare la cultura italo-america sotto una lente nuova: “Tutto quello che sentiamo sugli italiani d’America sono storie di mafia. Ma siamo stanchi di quelle rappresentazioni: non siamo solo il Padrino e i Sopranos”.

Chirico

Donna Chirico, presidente di ILICA

Raccontare gli italiani in modo nuovo e moderno è uno degli obiettivi che animano ILICA la cui neo presidente Donna Chirico, a conclusione dell’evento al Calandra, ha spiegato a La VOCE di New York: “Sono idee universali quelle su cui vogliamo aprire un dibattito e vogliamo farlo dando spazio alle voci della modernità e ai nuovi immigrati. È inevitabile che quando parlano le persone più anziane si torni sempre alla nostalgia, alle storie dei nonni. Ma oggi viviamo in un mondo di nuove crisi. Durante la mia infanzia non ho mai sviluppato una vera consapevolezza di che cosa significasse essere italiani e ora che mi sono avvicinata all’Italia vedo che ha molto altro da offrire e che molte delle cose che pensavo fossero italiane non lo sono: sono italo-americane”.

Diversi sono gli elementi su cui il discorso portato avanti da ILICA si concentra ma la lingua resta un punto focale. Lingua e cultura, raccontate in modo contemporaneo: “Vogliamo che l’esperienza italiana sia un’esperienza globale, gli italiani sono in tutto il mondo, vogliamo creare un luogo in cui possano incontrarsi e confrontarsi sull’influenza culturale e intellettuale che possono avere sul mondo. Per questo è importante creare questo tipo di eventi informali, non il classico gala italo-americano dove ci si siede a tavola, si danno premi, eccetera, ma un incontro tra poche decine di persone dove la gente di scambia idee”.

E lo scambio non punta a coinvolgere solo gli italo-americani ma anche gli italiani e gli americani perché possano imparare gli uni dagli altri: “Marra dice sempre che gli italiani devono imparare a fare le cose come le fanno gli americani, soprattutto nel lavoro e negli affari”. E gli americani, cosa hanno da imparare dagli italiani? “Ci sono dei sistemi di valori tra gli italiani che gli americani potrebbero apprendere. A cominciare dal valore di mangiare cibo vero o anche l’idea del sedersi intorno a una tavolata con tutta la famiglia. O l’idea di famiglia allargata. Ma anche il radicamento, il senso del da dove vieni”.

Qualcuno dal pubblico ha provato a sollevare la questione, ma poco è stato detto sulla nuova esperienza di emigrazione e di immigrazione in questo paese da parte di una tipologia di italiani ben diversa da quella che partiva nella prima metà del secolo scorso. Quella dei nuovi immigrati è una popolazione ancora largamente sconosciuta. Forse il mondo accademico, la psicologia clinica, la cultura e la scienza, stanno ancora una volta arrivando in ritardo sui tempi, lasciando inesplorate le storie della nuova immigrazione che, per quanto sia probabile che non stia producendo gli effetti devastanti che ebbe su chi nel secolo scorso arrivava a New York da un piccolo paese delle montagne del Sud Italia, di sicuro una qualche dissociazione la comporta. Come ha sottolineato ancora Donna Chirico: “Anche nelle generazioni di oggi, chi decide di andarsene dal proprio paese d’origine deve aver avuto una buona ragione, deve esserci dietro una qualche spinta forte”. Che sia o meno un trauma, per ogni immigrato c’è un emigrato, per ogni nuova vita in una nuova realtà, c’è un distacco da una realtà nota e familiare. E tutte le conseguenze del caso.

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Maurita Cardone

Maurita Cardone

Giornalista freelance, abruzzese di nascita e di carattere, eterna esploratrice, scrivo per passione e compulsione da quando ho memoria di me. Ho lavorato per Il Tempo, Il Sole 24 Ore, La Nuova Ecologia, QualEnergia, L'Indro, senza che mai mi sia capitato di incappare in un contratto stabile. Nel 2011 la vita da precaria mi ha aperto una porta, quella di New York: una città che nutre senza sosta la mia curiosità. Appassionata di temi ambientali e sociali, faccio questo mestiere perché penso che il mondo sia pieno di storie che meritano di essere raccontate e di lettori che meritano buone storie. Ma non ditelo ai venditori di notizie.

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