Questa volta parliamo di economia. Il tema è la diseguaglianza sociale. La tesi è che la diseguaglianza sociale da un certo punto in poi si riequilibra in maniera naturale, perché un po' della ricchezza prodotta dal sistema "gocciola" e ne beneficiano anche le classi che stanno più in basso. Il corollario di questa tesi è: meno tasse – in particolare ai ricchi – nel medio periodo porta vantaggio a tutti, perché grazie alla crescita economica, favorita da politiche fiscali generose, l'intero sistema ne guadagna.
Li avrete riconosciuti: sono due assunti-base del neoliberismo. Quelli che si propone di smontare Marco Revelli – ordinario di Scienza della politica presso l’Università del Piemonte Orientale e figlio del partigiano e scrittore Nuto Revelli – con il suo saggio-pamphlet uscito in Italia a fine 2014 per Laterza, La lotta di classe esiste e l'hanno vinta i ricchi. Vero!.
Potremmo dirlo in maniera più ricercata, ovvero parlare di due curve, quella di Kuznets e quella di Laffer, su cui si reggono le tesi sopraccitate. E tra poco lo faremo.
Prima però, un'osservazione: il neoliberismo è sottoposto a critica serrata praticamente dai suoi esordi, ovvero fin dalla fine degli anni '70, quando le tesi della scuola di Chicago trovarono un approdo politico nell'America di Ronald Reagan e nell'Inghilterra di Margaret Tatcher. Eppure – nelle sue varie forme e spesso nei suoi travestimenti (giacché ha imparato a non mostrare più così apertamente il suo volto, se non gli conviene) – il neolioberismo è vivo e vegeto, mentre le alternative di sinistra rimangono marginali. Questo vorrà pur dire qualcosa. Forse che sul neoliberismo è stato fatto tanto, convincente, lavoro analitico, lavoro teso a smontare i suoi dogmi e a rivelare le ingiustizie che produce (ma anche le sue falsificazioni, giacché non c'è cosa meno libera di un mercato condizionato dalla guerra, e di guerre i neoliberisti/neocon ne hanno combattute, a partire dall'Iraq). Ma non altrettanto è stato fatto sul versante delle alternative. Per cui, sì, tante persone oggi percepiscono che nel sistema economico qualcosa non va, e non potrebbe essere altrimenti, vista la devastante crisi finanziaria innescatasi a partire dal 2009; ma quelle stesse persone, poi, delle ricette della sinistra si fidano poco. E dunque, nella migliore delle ipotesi, si mettono nelle mani di modernizzatori pragmatici come Renzi. Nella peggiore invece alimentano il più basso populismo e il più bieco estermismo di destra, quello che mescola l'ostilità nei confronti del mercato globale all'odio verso gli stranieri o gli “zingari”. Anche se, stavolta, proprio dagli USA potrebbe venire la svolta: le recenti riforme fiscali di Obama, che tassano i redditi più elevati, i trust, le banche e le grandi finanziarie (per 320 miliardi di dollari in 10 anni) liberando risorse da redistribuire al ceto medio, sempre sotto forma di sgravi fiscali, rappresentano un segnale importante.
Detto questo, torniamo al libro. Il punto di partenza è il dibattito sviluppatosi in seno al Fondo Monetario Internazionale a partire dal 2011 su un tema che possiamo sintetizzare così: l'ineguaglianza fa bene alla crescita economica oppure la mette a rischio? Secondo l'autore, qualche dubbio comincia ad affiorare anche in seno al FMI, salvo che poi le politiche proposte ad un paese come la Grecia (non solo dal Fondo ma anche dalla Banca mondiale e dall'Unione europea), continuano a ripetere, "testardamente e ingiustificatamente, i dogmi disegualitari del passato", proponendo quindi misure di aggiustamento basate sui tagli alla spesa sociale, sulle privatizazioni dei servizi, sulla rimozione del controllo dei prezzi e sul perfezionamento dei diritti del capitale di investimento estero rispetto alle leggi nazionali.
Dopo avere brevemente preso in esame come l'ideologia neoliberista si sia imposta, all'indomani della stagione del keynesismo, Revelli passa ad analizzarne i presupposti teorici. In patricolare la teoria del trickle-down, o "gocciolamento", che il mondo economico ha preso a prestito dal sociologo Georg Simmel, che l'aveva sviluppata per spiegare come costumi e stili di vita delle classi sociali più elevate si diffondano con il passare del tempo verso il "basso", a causa di fenomeni di imitazione e ibridazione.
In economia, la teoria del trickle-down poggia su due curve. La prima è quella di Laffer, che dimostra l'efficacia di una politica fiscale a vantaggio dei redditi più alti. La leggenda vuole che essa sia nata in un ristorante di Washington, dove Arthur Laffer, all'epoca docente in una piccola business scholl, l'avrebbe illustrata a due esponenti dello staff del presidente Richard Ford, che poi ritroveremo con Bush jr., Donald Rumsfeld e Dick Cheney. Laffer prese una penna e tracciò su un tovagliolo di carta (circostanza poi smentita da uno dei presenti ma conservata nell'anedottica) la famosa curva, spiegando che se le aliquote fiscali superano una certa soglia, le entrate dello Stato calano, perché un'alta tassazione disincentiva gli investimenti e incentiva invece pratiche di evasione e elusione. Le conseguenze del modello si videro poco tempo dopo, con la presidenza Reagan, che tagliò le tasse delle fasce più ricche della popolazione e in maniera significativa anche quelle a carico delle imprese.
La seconda curva è quella di Simon Kuznets, premio Nobel per l'economia nel 1971, e venne cocepita nel 1955, quindi prima dell'inizio dell'era neoliberista. La curva dimostrerebbe che una fase di sviluppo accelerato produce all'inizio forti diseguaglianze sociali, ma che a lungo andare i benefici arrivano a tutti. Per Revelli questa teoria era nata in realtà per spiegare le prime fasi dello sviluppo industriale di un paese, e solo più tardi – tra gli anni '70 e gli anni '80 – si cominciò a farne un uso ideologico al fine di neutralizzare le critiche nei confronti degli effetti disegualitari del modello di sviluppo neoliberista e le relative contromisure di welfare.
L'obiettivo del libro è dunque smontare le due curve neoliberiste, ma anche aggedire l'apparato concettuale che esse sottintendono. Revelli spiega che, sì, le differenze sociali sono effettivamente cresciute, anche in seguito al ricorso al debito delle classi meno abbienti per compensare il calo progressivo dei redditi (sappiamo quanta parte il credito facile abbia avuto nel creare la bolla finanziaria poi esplosa ad inizio crisi).
Per l'autore, che utilizza a sua volta una metafora di Keynes, la teoria del trickle-down ha giustificato gli appetiti smodati delle "giraffe dai colli lunghi", ovvero dei protagonisti del boom del capitale finanziario, quello di Wall Street, dei fondi subprimes, dei paradisi fiscali, a scapito delle "giraffe dal collo corto", lavoratori – e imprese – che continuano a generare una ricchezza sistematicamente risucchiata verso l'alto.
La lotta di classe, dunque, non solo esiste, ma la starebbero vincendo i ricchi. Il che legittima, nella visione di Revelli, una nuova stagione di lotte contro l'hardware neoliberista (partendo dalle politiche fiscali) ma al tempo stesso anche contro il software, la sua ideologia.
Sarà la proletarizzazione del ceto medio – vecchia previsione marxiana – a far "esplodere le contraddizioni" dell'attuale fase del capitalismo? Oppure la bomba verrà innescata dalla crisi ecologica, dai limiti allo sviluppo posti dal riscaldamento globale? Oppure ancora, assisteremo alla definitiva affermazione dei mercati asiatici, forse persino di un "modello cinese", quello che Francis Fukuyama, nel suo La fine della storia, non aveva previsto, basato sul binomio economia di mercato-sistema di governo autoritario? Lo sapremo presto.
Marco Revelli, La lotta di classe esiste e l'hanno vinta i ricchi. Vero!. Laterza, 2014.
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