Si chiude il 2014 ed è tempo di bilanci. Perché sottrarsi, allora, alla (forse) futile ma (indubbiamente) irresistibile voglia di sintetizzare l’anno appena trascorso in classifiche di vario genere, numero e caso? Ecco allora una pratica e sentenziosa triade di top 5 che tenta — un po’ pretenziosamente — di fotografare dodici mesi di cinema, al di là e al di qua dell’Atlantico, sforzandosi di cogliere un po’ delle contraddizioni, delle sorprese e delle delusioni che hanno segnato quest’anno così denso.
Dalla compilazione di questa stretta tassonomia, emergono due considerazioni essenziali. In Italia, il trionfo agli Oscar de La grande bellezza e il premio a Cannes a Le meraviglie hanno distolto l’attenzione da una delle stagioni del cinema italiano più povere di qualità degli ultimi anni. Dall'altro lato dell'Oceano, al contrario, il cinema americano ha vissuto un anno vivace, con tante uscite di autori importanti, produzioni indipendenti di ottima fattura (The Babadook, The Guest, The Nightcrawler, Whiplash, Buzzard, per citarne qualcuno), e un gran numero di blockbuster di grande intelligenza che ha saputo sfornare, ma anche per le delusioni cocenti.
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5. Maps to the Stars, di David Cronenberg
Non gli è stata dedicata la giusta attenzione, ma in realtà è il vero capolavoro del “secondo” Cronenberg, quello – per intenderci – cui interessano meno le laceranti sofferenze del corpo e della carne e molto di più quelle ancor più dolorose dell’inconscio. Maps to the Stars è un film poderoso sul narcisismo, sull’apatia, sull’assenza dei padri, sui fantasmi e sui sensi di colpa, simbolicamente ambientato in un’accidiosa allegoria hollywoodiana.
https://youtube.com/watch?v=fwxmnyoofPs
4. Her, di Spike Jonze
Che Spike Jonze avesse talento “visivo” da vendere non è da annoverare nelle scoperte del 2014, che ora sappia fare anche lo sceneggiatore di se stesso l’abbiamo capito con questa sgargiante opera pop che sotto una crosta di colori scintillanti contiene una cupa e profonda riflessione sul “post-umano”. Di base, è una banale storia d’amore ambientata in un non precisato futuro, solo che “lei”, Samantha, è un Sistema Operativo, che per fortuna non ha la voce anticoncezionale di Siri ma quella ben più eccitante di Scarlett Johansson. Lui, invece, porta il volto di un attore prodigioso come Joaquin Phoenix ed è un impiegato che di lavoro detta lettere d’amore per conto terzi. Un film che dice tanto – e bene – sul transumano, ma riflette amaro anche sulla difficoltà endemica di intessere, oggi, rapporti “veri” e profondi.
3. Gone Girl, di David Fincher
Hai voglia a sforzarti di essere ottimista e di vedere per l’Italia una luce in fondo al tunnel di una crisi [anche] intellettuale ormai ventennale, poi arriva nientemeno che Dacia Maraini, che stronca e “taccia” di misoginia il capolavoro di David Fincher (sul Corriere della Sera, «un film che nuoce alle donne») e allora torna prepotente il più cupo pessimismo.
Sì, perché Gone Girl – L’amore bugiardo nel nostro paese – non soltanto è il più bel film di Fincher, un thriller immenso, un’elegante partita a scacchi con lo spettatore, ma è anche una lucida riflessione metaforica politica e sociale che va proprio nella direzione di una rappresentazione del femminile moderna e complessa. Con buona pace della signora Maraini.
2. Birdman, di Alejandro Gonzalez Inarritu
Tra le grandi sorprese del 2014 “vola” ai primissimi posti questo film spaccone e ridondante, eccessivo e compiaciuto ma – come mai capitato prima nel cinema di Alejando Gonzalez Inarritu – perfettamente sintonizzato con la storia che racconta. Che è quella di un attore, tale Riggan (bentornato Michael Keaton, ci sei mancato), prigioniero del suo personaggio cinematografico, il supereroe pennuto Birdman, di cui tenta di liberarsi sfidando il perbenismo pruriginoso di Broadway e soprattutto la giungla dei nuovi social media. Non è tutto qui: nell’accumulare di tutto un po’, nella foga di dire qualsiasi cosa e ancora di più, Birdman finisce per essere un film gigantesco, apparentemente privo di montaggio (un unico, artificioso, piano sequenza), con una camera sempre in movimento e accompagnato da un costante e tellurico rullo di batteria, un racconto straordinario sul narcisismo maschile, sul doppio, sulle ambizioni, le fragilità e i fantasmi del passato. Intorno al dialogo costante tra l’Io e l’Altro del protagonista, viene impietosamente ritratta con ironia e leggerezza la decadenza culturale di una società persa nel suo sogno di viralità, ormai incapace di distinguere il reale dalla sua rappresentazione.
1. The Grand Budapest Hotel, di Wes Anderson
Cosa succede quando nel cinema high style del texano Wes Anderson irrompe la storia? Domanda bizzarra, la cui risposta è contenuta nel più bel film del 2014, capolavoro di coerenza autoriale, di ispirazione e di sensibilità estetica. Fate attenzione, trattasi di irresistibile ghost story: il film è aperto e chiuso da un cimitero, storia quindi raccontata da morti e che parla di morti. La storia e la sua brutalità, con l’aiuto del tempo, li hanno spazzati via, ma il cinema, che Anderson usa mirabilmente per creare fantastici mondi (im)possibili, ridà vita, colore, anima ad un microcosmo che rappresenta in metafora tutto il Novecento, il cinema, la vita. Sorretto da un cast irripetibile, è un godimento assoluto e totale per gli occhi e per lo spirito.
Delusione dell’anno: The Counselor di Ridley Scott.
I 5 migliori film italiani usciti nel 2014
5. Smetto quando voglio, di Sydney Sibilia
Quante volte avete sentito abusare della formula “commedia all’italiana”, negli ultimi, trent’anni, e avete faticato a contenere intense pulsioni omicide? Quante volte avete sentito accostare a insignificanti commediole italiche gli aggettivi “garbata” e “intelligente”, solo perché si distanziavano, spesso in modo un po’ paraculo, dal cosiddetto forma “cinepanettone”? Il bellissimo esordio di Sydney Sibilia, oltre a portare una reale ventata d’aria fresca nell’asfittica galleria degli esordi italiani, merita finalmente di indossare tutte queste “maschere”. La commedia all’italiana, certo, perché strizzando l’occhio a Breaking Bad, Smetto quando voglio è il più serio pretendente a raccogliere l’eredità dei Soliti ignoti; intelligente e graffiante, anche e soprattutto perché – con leggerezza e tenendosi alla larga da velleità sociologiche spicce – racconta il paradossale genocidio culturale del nostro paese con un’efficacia rara da trovare nel cinema italiano.
4. Perfidia, di Bonifacio Angius
Il giovane regista poco più che trentenne Bonifacio Angius debutta nel lungometraggio con un ritratto esistenziale desolante, scabro, che sembra quasi uscito dallo sguardo di un Marco Bellocchio d’annata. La Sardegna d’inverno, una vita immobile e pensosa, lo sguardo cinico della famiglia e di una comunità bigotta e Angelino (ottimo Stefano Deffenu), raccontato nel drammatico tentativo di riavvicinarsi ad un padre per troppo tempo distante.
3. Il giovane favoloso, di Mario Martone
È difficile immaginare un’impresa più rischiosa che raccontare la vita di Leopardi al cinema. Eppure Martone, sfidando gli stereotipi, vince la sua scommessa e racconta il genio di Recanati cogliendone la dimensione vitalistica e tormentata, dandocene un ritratto bigger than life che contribuisce a liquidare i decenni di pessima critica crociana che ha infestato i nostri licei.
Strepitoso Elio Germano.
2. In grazia di Dio, di Edoardo Winspeare
Edoardo Winspeare è uno dei registi italiani più bravi in circolazione. Non c’è molto altro da aggiungere, se non che solo la miopia dello show business italiano ha tenuto alla larga questo elegante signore pugliese dal sangue nobile da una circuitazione molto più visibile.
In grazia di Dio è un film bellissimo, tutto al femminile, ambientato sul tallone d’Italia, a Leuca, dove quattro donne affrontano con coraggio e un po’ di incoscienza la crisi economica che sta per spazzarle via. Delicato e rigoroso, uno dei film più sottovalutati del 2014.
1. Le meraviglie, di Alice Rohrwacher
Primo posto quasi obbligato, perché il premio a Cannes è un traguardo importante, perché un’autrice donna riconosciuta a livello internazionale è sempre una bella notizia in un mondo ancora piuttosto misogino come il cinema, e poi perché Le meraviglie è un grande film, un’opera ieratica, ambientata nelle “meraviglie” della campagna umbra, con un modus narrandi capace – come raramente si vede – di cogliere le profonde tensioni psicodinamiche dell’infanzia, restituendo a quest’età la giusta dimensione tragica, al di là e al di fuori di ogni semplificazione.
https://youtube.com/watch?v=-AIHVBjHP_Y
Delusione dell’anno: Ogni maledetto Natale, Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo.
I 5 miglior film del 2014, né italiani, né americani
5. Deux jours, une nuit (Due giorni e una notte), di Jean-Pierre e Luc Dardenne
Non è il miglior film dei fratelli Dardenne, sicuramente si inserisce tra le cose più intense e riuscite dell’anno e ha il pregio di intavolare un discorso drammaticamente attuale – quello delle tutele del posto di lavoro – con una verità di linguaggio assoluta. Brava e bellissima Marion Cotillard.
4. Clouds of Sils Maria ÔÇï(Sils Maria), di Olivier Assayas
Il cinema di Assayas è sinonimo di eleganza e questo Sils Maria, passato sia da Cannes, sia da Locarno, ne è un manifesto perfetto. Scritto meravigliosamente e ancora più splendidamente interpretato da Juliette Binoche e da una sorprendente Kirsten Stewart.
https://youtube.com/watch?v=5L-9rcEhGm4
3. Mommy, di Xavier Dolan
La consacrazione definitiva di un genio assoluto, l’enfant prodige del cinema mondiale, Xavier Dolan. Un film diretto, selvaggio ed elegante, ricco, girato in un formato improbabile (più stretto del vecchio 4:3 televisivo) e con una disinvoltura formale ubriacante, un film di una raffinatezza intellettuale ed estetica indescrivibili.
2. The Look of Silence, di Joshua Oppenheimer
The Act of killing è stato uno dei film più importanti del nuovo secolo, questa è l’opera che ne prosegue il discorso politico, storico e sociale ma anche teorico. Joshua Oppenheimer è in questo momento il più coraggioso e interessante autore di documentari e i suoi due film sul genocidio indonesiano vanno visti, rivisti e studiati più volte, da ogni punto di vista.
1. Winter Sleep, di Nuri Bilge Ceylan
Tra i verdetti emessi dai grandi festival, l’unico veramente inappellabile è quello di Cannes, dove ha vinto Nuri Bilge Ceylan (quello di C’era una volta in Anatolia) con questo grandioso capolavoro. 196 minuti in un villaggio sperduto dell’Anatolia: enunciato così, il film potrebbe effettivamente scoraggiare una buona fetta di pubblico, ma attenzione, la capacità di scrittura del regista turco, dialoghi che hanno brillantezza e profondià Shakespeariana e una prospettiva di analisi psicologica delle dinamiche di coppia assolutamente rara fanno del “sonno invernale” di Ceylan un’esperienza da non perdere.
Delusione dell’anno: Nymphomaniac, vol. 1 e 2, di Lars Von Trier.