Che piaccia o meno, tra dive in passerella e maestri del cinema che riescono sempre a commuoverci e a farci pensare (e ballare!), il Festival di Cannes rimane il principale festival del cinema al mondo. Sicuramente rispetto agli anni passati, questa è stata un’edizione un po’ sottotono: minori presenze, di stampa e di pubblico, star più defilate, media la qualità dei film in concorso. Eppure quello di Cannes rimane il festival per eccellenza, il più seguito, il più amato e il più odiato, il più glamour, il più discusso. A Cannes ci sono tutti: l’attrice del momento, il regista rivelazione, il grande vecchio del cinema, i fan, i cinéphile, le aspiranti attrici-soubrette-o qualunque cosa basta farsi fotografare in generosi décollté e tacchi vertiginosi, i critici più temuti e i bloggers d’assalto, i party-goers, e ancora fotografi più o meno equipaggiati, sales agent speranzosi e buyers attenti, agenti, press office, capi struttura delle TV di tutto il mondo, direttori di festival, presidenti di enti prestigiosi e improbabili associazioni, ragazze e ragazzi immagine, sponsor, e tanti, tantissimi giovani che sognano, un giorno, di fare un film. Tutti sulla Croisette, ogni anno, a passeggiare, curiosare, darsi appuntamento per un’intervista o una possibilità remota di lavoro, tutti a parlare di film, sceneggiature, ruoli, budget, progetti, tutti a scattare foto e selfie.
Ci sono tutti, ma sicuramente in numero minore rispetto agli anni passati: si vede dalle file, lunghe ma alla fine si entra sempre, a qualsiasi proiezione; si vede dai fotografi e dai fan appostati lungo il red carpet, tra scalette di metallo e piedistalli improvvisati, c’è chi bivacca per ore, si, ma è più per abitudine, anno dopo anno, che per necessità; si vede al mercato, stand semi deserti, sales agent sconsolati perché ormai al market non si firma più nessun contratto, al massimo si dà qualche screener o la password per accedere al film on line, poi, se interessato, il buyer, forse, li contatterà, tra una settimana, un mese, chissà. Certo, ci sono le eccezioni: alcuni film vengono venduti, e anche bene, alcuni espositori sono molto contenti, e si stringe qualche buon accordo. Ma è sempre più l’eccezione, la regola è un’altra: tutti vogliono un film di sicuro successo commerciale, con qualche grosso nome, e che costi poco. That’s entertainment, baby… Ma intorno, e dentro, a questa grande giostra, colorata e rumorosa, con decine di yacht luccicanti in rada a osservare da lontano lo spettacolo della Croisette, ci sono i film, ci sono i registi e gli attori, i produttori, a volte qualche scrittore, più raramente sceneggiatori, compositori, direttori della fotografia, che il cinema lo fanno, per lavoro e per passione.
E ci sono le giurie, più o meno contestate, che i film li premiano. E anche in questa 67a edizione del Festival di Cannes ha vinto chi, a detta di alcuni, non avrebbe dovuto vincere e chi, a detta di altri, ha vinto più che meritatamente. Il premio più bello per noi è stato il Grand Prix a Le meraviglie di Alice Rohrwacher, che alla proiezione ufficiale aveva ricevuto oltre dieci minuti di applausi, un film che si muove con leggerezza tra mondo rurale e favola, uno sguardo personale e intenso quello della Rohrwacher, come aveva già dimostrato nel suo bel film d'esordio Corpo celeste. La Palme d’Or è andata a Winter Sleep, del turco Nuri Bilge Ceylan (tra i favoriti alla vigilia), film d'autore in modo assoluto, lungo e intenso, parlatissimo, profondo, vincitore anche del premio Fipresci (critica internazionale) e premiato con convinzione ma non all’unanimità dalla giuria presieduta da Jane Campion, che invece avrebbe dato la Palme d'Or al bellissimo Mommy (una storia di amore e odio tra una madre e un figlio) del giovane regista canadese Xavier Dolan, che ha vinto invece, ex equo con Adieu au langage del veterano del cinema Jean Luc Godard il Prix du Jury, il premio della giuria. Un premio, quest'ultimo, che ha convinto poco: Dolan, e gran parte della stampa presente a Cannes, si aspettava la Palme d'Or e il film di Godard – pur con tutto l'affetto per il grande maestro, e la nostalgia per il suo cinema e per la nouvelle vague – è francamente mediocre. Miglior attrice è stata giudicata Julianne Moore per Maps to the Stars del grande Cronenberg (qui però in versione 'minore'), mentre il premio come miglior attore è giustamente andato allo straordinario Timothy Spall nei panni del pittore romantico inglese William Turner, dello splendido film di Mike Leigh, sicuramente uno dei più belli visti quest'anno al festival. Miglior sceneggiatura al russo Leviathan, altro favorito per la Palme d'Or, thriller cupo e sublime ambientato nel nord della Russia, mentre il premio per la miglior regia è andato a Bennett Miller per Foxcathcher, tragico film sul wrestling con un ottimo trio di attori (Channing Tatum, Mark Ruffalo e Steve Carell), molto applaudo al festival. La Camera d'Or, che premia il miglior esordiente, è andata a Marie Amachoukeli, Claire Burger e Samuel Theis per Party Girl. Premi a parte, oltre a Winter Sleep e Mommy, tra i film più amati dalla stampa e anche dal pubblico ci sono Deux jours, une nuit dei fratelli Dardenne e Jimmy’s Hall di Ken Loach: una standing ovation del pubblico entusiasta, che ha battuto le mani a ritmo di musica e ha ballato a tempo di jazz. Impegnato, intelligente, liberatorio, elegante.
Ma a Cannes non c’è solo il concorso ufficiale, e anzi, come spesso accade sono le altre sezioni a riservare piacevoli sorprese e a presentare i film più interessanti. Ed ecco allora Un certain regard, che ha premiato White God di Kornél Mundruczó, mentre il Premio della Giuria è andato a Tourist, dello svedese Ruben Östlund, film piuttosto curioso e originale. Special Prize a The Salt of Earth di Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado, mentre il miglior cast è stato giudicato quello di Party Girl e il miglior attore David Gulpilil per Charlies' Country di Rolf de Heer.
Il Prix Art Cinema Award della Quinzaine des Réalisateurs è andato a Love Eat First Fight di Thomas Cailley, che ha ricevuto anche altri importanti riconoscimenti, mentre nella Semaine de la Critique il Nespresso Grand Prize è stato assegnato all'ucraino The Tribe di Myroslav Slaboshpytskiy, uno dei veri 'casi' di quest'edizione del festival, film che ha ottenuto attenzione e recensioni entusiastiche dalle testate internazionali più autorevoli. Ambientato in un istituto per sordomuti, racconta dell'ascesa di un ragazzino all'interno di una baby gang: tutto il film è parlato con la lingua dei segni, niente sottotitoli, eppure è coinvolgente, comprensibilissimo, magistralmente girato e bellissimo. La Queer Palm è andata a un altro film molto amato dal pubblico e dalla critica: Pride, dell'inglese Matthew Warchus, film di chiusura della Quinzaine che racconta l'alleanza, negli anni Ottanta, tra i minatori gallesi in sciopero contro Margaret Thatcher e i giovani attivisti gay/lesbo londinesi.
Tra i film più apprezzati a Cannes quest'anno, vale la pena infine ricordare Lost river, ottimo esordio alla regia del talentuoso Ryan Gosling, The Homesman, bel western di Tommy Lee Jones (seppure non all'altezza del precedente Le tre sepolture), e in una certa misura anche Cold in July di Jim Mickle, tratto dal romanzo di Joe Lansdale, scrittore cult amatissimo da critica e lettori, che vede un bravissimo Sam Shepard e il ritorno scoppiettante di Don Johnson, più affascinante che mai (nonostante il passare degli anni, trenta da Miami Vice!) accanto al protagonista Michael C. Hall (Dexter per il pubblico televisivo)
Gli italiani a Cannes sono stati ben accolti dalla stampa internazionale e dal pubblico. Oltre al prestigioso riconoscimento a Le meraviglie, è stato molto apprezzato l’esordio di Sebastiano Riso, Più buio di mezzanotte, storia fragile e sincera di una sessualità sofferta, cercata, negata, con un giovanissimo protagonista – trovato dal regista dopo un casting su tremila di adolescenti a Catania e provincia, e assolutamente perfetto per il ruolo: Davide Capone – creatura meravigliosa e commovente, accanto a un padre duro e incapace di capirlo, un Vincenzo Amato che riempie di sfumature e verità il suo personaggio. Accanto a loro, applaudita anche Micaela Ramazzotti. Curiosità e interesse per Incompresa di Asia Argento, che non ha voluto saperne di riferimenti alla sua famiglia e ha negato l’autobiografismo del film, non più della misura in cui ogni film – come diceva Fellini – è in qualche modo autobiografico. Scritto con Barbara Alberti e con protagonista una ragazzina di nome Aria che se ne va in giro da sola, con un gatto e lo zainetto in spalla, figlia di genitori assenti, artisti irrequieti e nevrotici, è un film imperfetto ma a suo modo delicato. A guardar bene, tutti e tre i film italiani raccontano la famiglia, seppure in epoche e contesti diversi: complessa, disfunzionale, inadeguata, inevitabile.
Dal cinema italiano a Quentin Tarantino il passo è breve. In passerella in occasione della proiezione sulla spiaggia di Pulp Fiction (a vent’anni dall’uscita del film), ha affiancato John Travolta nel celebre balletto del film, sotto gli occhi divertiti di Uma Thurman, e ha poi presentato l’omaggio a Sergio Leone, suo grande maestro e ispiratore insieme a Sergio Corbucci, con la proiezione di Per un pugno di dollari, dopo la cerimonia finale di premiazione del festival.
Per concludere, un po' di glam e colore, di cui il Festival di Cannes è inestricabilmente e irrimediabilmente fatto. Tante le dive che hanno sfilato davanti al Palais e posato in un susseguirsi di photo call: Nicole Kidman, rattristata dalle critiche della famiglia Grimaldi per il suo (insipido) Grace; Marion Cotillard vestita di bottoni, splendida interprete dei Dardenne; Juliette Binoche, sempre raffinata e sempre diva; Monica Bellucci, bella (e brava) nel film della Rohrwacher e applauditissima dall’adorante pubblico francese; Jennifer Lawrence, defilata e sorpresa a fare jogging sulla spiaggia; Gong Li, elegante interprete del melodramma d'altri tempi di Zhang Ymou Coming Home. Grande assente: Kristen Stewart – giovane superdiva di Twilight e interprete, con la Binoche, del film di Olivier Assayas – la cui presenza era stata prima annunciata, poi smentita, poi ri-annunciata, poi definitivamente smentita. Ma la vera diva sulla Croisette è stata sicuramente Sofia Loren, interprete dell'indimenticabile Matrimonio all'italiana, presentato a Cannes nella versione restaurata, e del cortometraggio Voce umana, diretto dal figlio Edoardo Ponti: un monologo intenso e straziante interpretato in passato da altre grandi attrici, prima fra tutte Anna Magnani. E se gli obiettivi dei fotografi e gli sguardi degli ammiratori erano tutti per Sofia, dall’alto dell’ingresso del Palais (così come da ogni angolo del lungomare di Cannes e della città vecchia, affascinante e scontrosa), è lo sguardo seducente e immortale, dietro gli occhiali da sole, di Marcello Mastroianni l’immagine più affascinante e struggente di questo festival: la Loren e Mastroianni ancora insieme, idealmente, sulla Croisette, a cinquant’anni da quel film indimenticato e indimenticabile. E all'improvviso qui a Cannes, quel cinema (così come il grande, meraviglioso, Vittorio De Sica) ci manca tanto.