Il cannone del Gianicolo e il Fontanone in corsa agli Oscar, sul New York Times, a Cannes, in allegato con Panorama, su Repubblica. Paolo Sorrentino ha donato "La grande bellezza" al mondo e il mondo ha risposto così: morendo.
Spiega il regista sul New York Times (Anatomia di una scena) che la sequenza d'apertura del suo film, tra canti salomonici e piantine stradali, ha al suo centro un turista giapponese "che di fronte alla bellezza di Roma muore, come nella tipica Sindrome di Stendhal"; Roma, la città eterna, "ha una bellezza così potente che puoi morire se la guardi a lungo".
"La grande bellezza" ha una (sua) testa esiziale che ricorda quelle delle donne dei Dardani, avvinghiate disperatamente alle statue degli dei della patria. Una testa in mezzo a crani, tumuli, ossa, rovine fumanti. Una testa sulla quale versare acqua santa, inveire o cacciare un tizzone nel collo, e ripensare a uno a uno a tutti i figli frikkettoni che percorrono la Colombo. Una testa che stramazza al suolo e rotola sin dove sei tu e ti dice: "Scegli quello che vuoi".
Scegliere Roma è il modo di trovare armi migliori per non soffrire la vita, lavarsi d'acqua pura, fasciarsi di un mantello di luce al sole. E Paolo Sorrentino sembra ripartire proprio dal sole, che nutre il suo alter ego campano Toni Servillo, accompagnandolo come una dura roccia verso il precipizio, culturale e umano. Dalla Roma senza baci e parole del Divo Andreotti alla Roma maligna e punk di Dario Argento ("La terza madre", l'opera contemporanea che meglio descrive, in bolle horror museali maestose, la degenerazione degli italiani e dei romani, stregati dall'abulia). La Roma con Venditti, Ferilli, Verdone de "La grande bellezza" è a un punto morto. Disgustosa, fragile, sanguinante, soggiogata da quel tocco salottiero che ha tolto piacere alle creature della Terra: angeli alati, uccelli del boschetto e di via del Boschetto, artigiani uncinati, maghi nudi, circensi, scrittori, registi. Papi. Suore. Barbie rifatte.
La caducità dell'intellettuale, dei partiti politici, di Prati, dei fiumi, della puttana d'alto rango… Tutto converge in una zolla a senso unico, senza desiderio, ma di sola ricerca dell'Io. Un mega-reality nell'oro massiccio di Roma. Dove chi stacca una mela dall'albero viene accolto nei Cieli, chi la lascia appesa è bollato come somaro.
Il personaggio di Jep Gambardella tocca le sponde americane, si cala giù dal tempio come un gagà Tmolo, arbitro del nulla. Gli Stati Uniti, bellissimi anche loro, sapranno non morire di fronte al grande gossip che Sorrentino mette in scena? Sosterranno il peso di alcuni pietosi siparietti? Cadranno nel trappolone "omaggio a Fellini" e sapranno riconoscere (nella cene chic in alto in alto in alto e nella Santa esangue, nelle giraffe e negli ippocastani) un fantasma di quello che Roma è stato e di ciò che non è (più)? La Roma di Alemanno, ora di Marino, è un corpo di im-segni fascisti, finto-spirituali e omofobi che merita un calcio oltreoceano, sferrato, certo, da Totti.
"La grande bellezza" è appunto un film erratico. Errante. Erotico. Ma, dopo la visione, non aspettativi miracoli. Qui non sorgerà una città.