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June 28, 2014
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Gay Pride: ognuno trovi la propria bandiera

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Time: 3 mins read

Mia madre è stata la prima ad appenderla. Mia nonna la prima a cucirla. Mio nonno il primo a restituirne il significato, tenendo i piedi sul tavolo, sbucciando una mela. Quale luogo (e persona) scegliere per guardare la mia famiglia da fuori, nei giorni del Gay Pride?

E' questa polaroid d'amore-mai-sbiadito ad aver spalancato la persiana della comprensione, in me. E l'effetto resta, s'insinua in chi tocco, ci libera da tutti i mali. Una famiglia e una bandiera attorno al tavolo delle diagnosi mai affrettate: da appendere, da aggiustare, da conoscere. Una famiglia che ha sempre scritto la verità sulla corteccia dei tigli, e possiede ancora quell'interminabile cura per gli altri, per chi ha le ali spezzate. Per le lampadine e le sedie. Quella bandiera oggi è un lampo luminescente, un momento sospeso sopra New York, in attesa dalla parata per i diritti dei gay (il 29 giungo). 

"Il Pride è ancora molto importante", mi ha detto l'edicolante all'angolo. Negli Stati Uniti, in Italia, ovunque. Passeggiando sotto casa, nel West Village, un signore spiegava a un ragazzino il significato della celebrazione: "Una serie di episodi nel mese di giugno, in diverse parti del mondo, dove ci si dimostra orgogliosi di essere gay in un mondo straight". Il ragazzino, nel dubbio: "Bah. Sicuro sia proprio così?".

Il potente moto d'azione cominciato a New York City dopo gli eventi dello Stonewall Riots (1969) – quando i gay si ribellarono alle repressioni delle autorità – è decisamente qualcosa di meno festoso di quanto si creda. E' un urlo contro la solitudine imposta, contro l'emarginazione, una fiammella della vita che ha saputo raccogliere attorno a sé una comunità di illuminati, in città, stati, nazioni. Gli angeli cattivi diranno che non è così. Le bandiere che trovo appese a Manhattan comunicano ancora speranza e volontà nel cambiare le cose, nel renderle eque; un cuscino, un riparo antiepilettico. Senza tranquillanti. Senza violenze. "We won't forget the battles", "Non dimenticheremo le battaglie" mi ha sussurrato stamattina un trans al parco, convinto di avere il seno piatto e con un forte male ai muscoli delle cosce. 

Gli sportelletti da cui è possibile recuperare il Gay City News spalancano alt(r)e ciminiere tra le nuvole: se negli Stati Uniti la lotta per gli "equal rights" è in crescita, in posti come Russia, India o Uganda i gay sono indistintamente trattati come criminali, nel silenzio di associazioni che potrebbero fare di più per proteggerli. Il paese da cui provengo ha reso Roma un gabbiano di rispetto e di valore, in occasione dell'ultimo Pride. Un paese, una città dove io non ho mai combattuto davvero, un paese che con i suoi "Negrone di merda"/"Frocio di merda" (ultime voci ascoltate prima di salpare per New York) ha suicidato dentro me la voglia di fare a cazzotti o di dar baci drogati alle persone che ho amato, che amavo, che amo. Poi mi sono svegliato. Ecco perché il Pride, le bandiere, i carri, i sorrisi, le musiche, le stelle filanti oggi contano più di ieri: questo piccolo mondo non può rimanere una gabbia d'oro per bastardi e omofobi. Non possiamo lasciar soli madri, padri, figli.. E, allora, che ognuno trovi la propria bandiera nel tempo, da appendere sul proprio campo di gioco. 
 

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