Esce in questi giorni nelle sale americane At Berkeley, ultima produzione di Frederick Wiseman, ottuagenario maestro del cinema documentario USA. A partire dal 1967 – anno di Titicut Follies, un impressionante ritratto del reclusorio psichiatrico criminale di Bridgewater, in Massachussets – il regista di Boston ha realizzato in oltre 40 anni di carriera quasi 40 pellicole. Lo spettro dei suoi film ha costantemente messo a fuoco l'universo istituzionale statunitense, dalla scuola superiore all'ospedale, dal grande magazzino al tribunale (anche se a partire dagli '90 ha filmato anche alcune istituzioni culturali francesi, come la Comédie-Française o il Balletto de l'Opéra di Parigi). Wiseman, che con la sua casa di produzione Zipporah Films dirige, monta e distribuisce in totale indipendenza tutte le proprie pellicole, ci ha abituato con il suo sguardo corrosivo alla distorsione degli stereotipi dell'America Dream. Distopie quotidiane. Ma con At Berkeley, film sul prestigioso ateneo californiano, Wiseman ci stupisce con un film denso di fiducia. At Berkeley é ciò che verrebbe da definire poesia in prosa.
Lo sguardo di Fred Wiseman é lo specchio allucinato ed acuto sul rimosso dell'america dream. Nei suoi film le fobie di controllo e il dominio ossessivo della burocrazia propri della società occidentale vengono alla luce attraverso l'annullamento dell'individuo, schiacciato dalle regole. Nei film di Wiseman sembra di sprofondare in una piéce del teatro dell'assurdo, se non fosse che tutto é molto americano. Non é certo un caso se Titicut Follies per molti anni é stato bandito e censurato da sentenze dei tribunali USA. Wiseman, conservando una coerenza etica ed estetica assolutamente unica attraverso gli anni, oggi é un maestro indiscusso, probabilmente il maggiore cineasta vivente nel panorama del documentario statunitense (e non solo).

Il regista Frederick Wiseman
Nei film di Wiseman sono le istituzioni nate per assistere, reprimere, controllare, divertire, la middle class di questo paese (e dell'occidente in genere) ad essere le star, le protagoniste delle storie. Non capita mai, nelle opere di questo cineasta di origine russo-ebraica, di focalizzare l'attenzione su di un personaggio, su di una personalità specifica. I film di Wiseman sono corali, senza un filo che non sia quello legato dai limiti fisici dell'istituzione che ha scelto di seguire, e con un montaggio che prosegue per associazione, contrasto, ironia, invenzione. Un distillato delle centinaia di ore di riprese realizzate all'interno delle istituzioni prescelte. Niente voce off, interviste o cartelli che illustrino o diano indicazioni allo spettatore in merito ai temi presentati. Non esiste un'interpretazione alla quale siamo invitati ad aderire o da cui dissentire. I film di Wiseman, insomma, sono tutto l'opposto dei film di Michael Moore. Wiseman é invisibile, anche se onnipresente. I suoi film non sono però una piatta restituzione degli accadimenti registrati e, sorprendentemente, la materia filmica, nelle mani di Wiseman, diventa molto più che cronaca, assumendo caratteristiche di pura narrazione. Reality fictions, così il regista definisce i suoi film. E mediamente il film ultimato rappresenta il 3% del materiale girato.
Nel caso di At Berkeley, Wiseman prosegue nella sua ricognizione dell'universo istituzionale americano con la stessa logica: il filmmaker (che in realtà durante le riprese registra l'audio, mantenendo una grande libertà di movimento sul set e lasciando la fotografia al collaboratore di lunghissimo corso, John Davey) ha pedinato il prestigioso ateneo californiano per oltre dieci mesi, seguendo, come è sua abitudine, l'istituzione in ogni suo aspetto, dal lavoro dei giardinieri fino alle attività del rettore e del consiglio d'amministrazione. Ma radicalmente nuova e sorprendente è l'impressione che il film lascia sullo spettatore. A fianco alle ricorrenze (come la durata della pellicola: oltre quattro ore, senza intervallo), Wiseman ci mostra un'istituzione che – lungi dall'essere esente da difetti – riflette costantemente sulla propria natura e cerca senza sosta di migliorarsi, di stare al passo con i tempi, di mantenere un'attitudine proiettata verso il futuro. Qui, inaspettatamente, e in una delle rare volte nella sua lunga e rigorosa carriera, Wiseman ci mostra una plausibile concretizzazione dell'american dream.
Mostrare un'istituzione con un'accezione sostanzialmente positiva è, in sé, una notizia, in un film del cineasta di Boston. Ma in At Berkeley assistiamo a momenti che potremmo definire lirici pur nella loro semplicità e prosaicità. Quando assistiamo alla sequenza che mostra una studentessa in difficoltà con le tasse (il vero limite di un'istituzione come Berkeley é proprio quello delle tasse, altissime per una università che si definisce public) abbiamo la conferma: l'individuo apparentemente non viene sopraffatto e abbandonato dall'istituzione, bensì (apparentemente) viene sostenuto, accompagnato, protetto. Sembra un'eresia. Ma se questa é stata la nostra sensazione durante (e dopo) la proiezione, è anche vero che il bello dei film di Wiseman è che non ci sono mai due spettatori che vedono lo stesso film o ne traggono conclusioni simili… Ogni film di questo inesauribile cineasta finisce infatti per creare un proprio percorso nella mente dello spettatore.
Berkeley in definitiva si propone come un ateneo ideale per la middle class americana, e ci é sembrato che l'istituzione provi a muoversi coerentemente con gli obiettivi che si prefigge, nonostante limiti e distorsioni proprie della società americana. Nell'intervento via Skype da Parigi al termine dell'anteprima newyorchese, lo stesso Wiseman ha sottolineato il fatto che un filmmaker onesto sia tenuto a mostrare nei propri film persone di intelligenza, carattere, tolleranza, volontà e dedizione al lavoro tanto quanto sia moralmente obbligato a mostrare i fallimenti, l'insensibilità e le crudeltà di altre. Come dargli torto?
Attendiamo l'indiscusso maestro nel suo prossimo lavoro (sempre per rimanere in tema di eccellenze), sulla National Gallery di Londra. Nel frattempo, come sempre da ormai quasi cinquanta anni, chapeau.
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