Ad osservare le attuali insanabili divisioni tra gli stati dell’area mediorientale e del Golfo, la memoria torna alla felice stagione del dialogo israelo-palestinese dell’autunno di vent’anni fa. Tanto più che nell’ambito di quella vicenda cominciò la lunga notte della politica estera italiana, diventata, da quella data, marginale per gli affari internazionali.
Il 13 settembre 1993, a Washington, sul prato del Giardino delle rose della Casa Bianca, si celebrò il primo accordo di pace tra Israele e Olp, davanti a testimoni e protagonisti di molti paesi. Brillò, per assenza, l’Italia, nonostante la sua centralità negli assetti mediterranei. La furbizia alla quale si ispirava la politica mediorientale del duo Craxi Andreotti, col pieno appoggio del Pci, nel solco della strategia elaborata negli anni settanta in accordo con la Santa Sede, non pagò dividendi, conclamando l’isolamento al quale ci condannavano certa accondiscendenza verso gli attentati di Arafat e soci, le ambiguità con Israele, i distinguo nella partecipazione alla guerra per il ripristino del Kuwait. Dagli anni settanta, in Israele circolava una barzelletta che dice tutto: “L’Italia è l’unico paese arabo che non ci ha ancora dichiarato guerra”.
Israele e Olp firmarono alla Casa Bianca una Dichiarazione di principi che prevedeva, dopo un quinquennio di Autorità palestinese con poteri su Cisgiordania e Striscia di Gaza, la definizione dello status definitivo del popolo palestinese. All’accordo si era giunti il 19 agosto, ad Oslo, dopo sette mesi di discretissime trattative. La Scandinavia, lontana dal teatro mediorientale, riusciva, grazie all’equidistanza da israeliani e palestinesi, là dove le velleità dei governanti di Roma registravano fallimento. Il tutto a scapito dei nostri interessi nazionali, che nel Mediterraneo trovano destinazione geopolitica e geoeconomica obbligata. Come scriverà anni dopo Maurizio Molinari, a guadagnarne furono gli artefici della nuova carta del Medio Oriente: il giordano Hussein, l’israeliano Rabin, l’egiziano Mubarak, il clan di Arafat e, ovviamente, Bill Clinton e gli americani. Qualcosa verrà recuperato con l’avvento di Romano Prodi a Palazzo Chigi e con la diplomazia di Dini. Ma sarà troppo tardi per il rilancio dei nostri interessi nella regione.
Nel frattempo, il Mediterraneo è stato sconvolto da un continuo di crisi istituzionali, colpi di stato, conflitti civili, insorgenze etniche e religiose, recessioni economiche e finanziarie. Il suo nord deve vedersela con bilanci pubblici dissestati ed élite parassitarie che pongono la questione democratica. Il sud con divisioni feroci tra gruppi etnici e religiosi, governi in guerra o comunque con drammatici problemi di stabilità. L’Italia, persa nelle contraddizioni della sua politica interna e negli squilibri della sua finanza pubblica, risulta totalmente fuori gioco. Il caso più eclatante della nostra emarginazione e di quanto ci costino gli errori del ceto dirigente, vengono dalla Libia. Il cinismo degli affari che ha guidato il nostro comportamento verso il dittatore Gheddafi non ci ha risparmiato la vergogna del voltafaccia nei suoi confronti, e ci ha garantito la totale incapacità ad influenzare l’andamento di quella crisi e di ciò che ne è seguito, in termini di tutela degli interessi economici e politici degli attori coinvolti. Sul nostro ruolo in Siria stendiamo un velo pietoso.
Molto del pedaggio che continuiamo a pagare in Mediterraneo, è iniziato vent’anni fa, sul prato del Giardino delle Rose, alla Casa Bianca. Non si vedono all’orizzonte cambiamenti che autorizzino all’ottimismo.
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