Paolo e Vittorio Taviani hanno realizzato un’opera di toccante poesia e ingegno, combinati in eguale misura, portando la loro professionalità, l’arte sapiente che ha donato al cinema film memorabili come Padre Padrone, Allonsanfan, nelle mura anguste di una prigione, rivisitando con lo sguardo del cinema l’allestimento teatrale del Giulio Cesare shakespeariano, ad opera del regista Fabio Cavalli, direttore del Centro Studi Enrico Maria Salerno e della Compagnia dei Liberi Artisti Associati che impegna i detenuti attori del braccio G12, sezione Alta Sicurezza, presso il Carcere romano di Rebibbia Nuovo Complesso. Il film è quasi interamente in bianco e nero che i Taviani ritengono irrealistico, mentre il colore è realistico, lo scopo era quello di evitare di scivolare nel naturalismo televisivo, per questo il bianco e nero li ha fatti sentire più liberi di inventare, creando contrasti violenti con il finale a colori che esalta la gioia degli attori.
Dopo il trionfo della rappresentazione, con il pubblico che applaude, in preda all’emozione. E’ grande cinema la lunga sequenza dei provini a cui vengono sottoposti i detenuti che dovranno rappresentare Giulio Cesare: il candidato deve declinare le sue generalità immaginando di trovarsi in un posto di frontiera dove viene interrogato, deve dire addio alla persona amata e la prima volta risponde alle domande con dolore, la seconda volta con rabbia. I detenuti- attori scelgono tutti di usare i propri nomi, quelli del padre e della madre, nominano la città o il paese dove sono nati, avrebbero potuto inventare, invece hanno, in qualche modo, gridato al mondo la loro storia, il fatto di essere vivi, seppure prigionieri, scolpendo volti, parole, sguardi che non si lasciano dimenticare.
La giuria del Festival del Cinema di Berlino ha premiato con l’Orso d’Oro, il diciotto febbraio scorso, questa pellicola inconsueta, non solo nella cinematografia dei due geniali cineasti, ma nel panorama mondiale in cui brilla come un diamante lo sguardo dentro Shakespeare, tra performances d’interpreti e dramma artistico, rivisitato da un ambito certo privilegiato a scavare la sofferenza e il senso di esclusione, insondabile, profondo come il mare, nel conflitto di potere e passione che pare evocare l’alfabetizzazione primaria di chi è recluso. Tradimento e vendetta, amicizie e congiure, tutto nella rappresentazione del dramma sembra evocare le colpe che hanno condotto tanti uomini di tutti i sud del mondo in questo braccio dove si scontano pene per gravi reati associativi, legati a fatti di mafia, ‘ndrangheta, camorra.
Il gruppo degli attori comprende più di un “fine pena mai”, ergastolani, colpevoli di omicidio, per i quali forse recitare, la stessa messinscena teatrale dentro il carcere, è come esorcizzare il male commesso, riuscire quasi “a perdonarsi.”
Racconta Paolo Taviani che lui e Vittorio rimasero folgorati quando, rispondendo alle sollecitazioni di una cara amica, si recarono al Carcere romano di Rebibbia, dove i detenuti recitavano a teatro autori immortali e lo facevano con una certa maestria da anni, sotto la guida del regista Fabio Cavalli. Quando arrivammo, prosegue, vedemmo uno dei detenuti che stava leggendo l’Inferno di Dante, era un uomo sui quaranta anni che, prima di dare inizio alla lettura del canto di Paolo e Francesca, si rivolse al pubblico dicendo che nessuno poteva capire questo canto quanto loro che lo comprendevano fino in fondo, perché l’amore di Paolo e Francesca, un amore impossibile, il loro pianto, il loro dolore, l’impossibilità d’amare, sono sentimenti che i carcerati conoscono bene, lontani dalle donne, alcuni per tanti anni, troppi; le nostre donne, diceva il detenuto, le vediamo una volta ogni tanto, attraverso un vetro, alcune non ci aspettano più e ne siamo disperati, oppure ci aspettano e siamo forse disperati anche di più, proprio per questa impossibilità di dialogo che c’è. Grande emozione fu ascoltare Dante con dei suoni nuovi, strani, come anche riscoprire battute di Shakespeare deformate dal napoleta no, dal siciliano, confessano i Taviani per i quali tutti i loro film sono nati sempre da un’emozione, sennò non li facciamo. “Comprendemmo che la deformazione dialettale delle battute non immiseriva il tono alto delle tragedie, l’attore-detenuto e il personaggio entravano in confidenza attraverso una lingua comune che li introduceva con più facilità al dramma shakespeariano dove sussiste anche una valenza popolare”.
Realizzare un’opera cinematografica sull’emozione procurata loro dall’avere attraversato cancelli e inferriate per ritrovarsi davanti al palcoscenico di un teatro che era un carcere, il carcere di Rebibbia, quivi ascoltare alcuni detenuti proferire la Divina Commedia, nei particolari dialetti di ciascuno, significò per essi l’urgenza di scoprire attraverso un film come può nascere da quelle celle, da quegli esclusi, lontani quasi sempre dalla cultura, la bellezza delle loro rappresentazioni. Erano i detenuti della sezione di Alta Sicurezza, un regista di sicuro talento, Fabio Cavalli, da anni era il loro regista, ne sapeva tirar fuori la forza drammatica della verità e una certa sapienza di attori: i Taviani, chiesero loro che si rappresentasse Giulio Cesare perché è una storia italiana dominata dall’eterna conflittualità che affligge gli uomini d’ogni tempo, l’antitesi tra il dubbio e l’assassinio, tra il tradimento e l’amicizia, tra il potere e la libertà.
Paolo e Vittorio Taviani
Dice Vittorio: “L’abbiamo scelta perché è una storia italiana molto vissuta nella memoria collettiva e poi perché ci sono questi temi, la congiura, il capo, l’uccisione, il ferimento, il sangue, il dubbio, è chiaro che nel passato di molti di loro detenuti è qualcosa che veramente ha rappresentato il loro quotidiano, non sono estranei a questo tipo di sentimenti. Era necessario contrapporgli un’opera forte della stessa intensità, ma di segno opposto, due mondi, quello del Giulio Cesare shakespeariano e quello del vissuto degli uomini d’onore incarcerati, che si rispecchiano. Una delle scene più belle di Shakespeare è quando ci sono le grandi reazioni di Bruto e di Marco Antonio e quest’ultimo insinua che Bruto è un uomo d’onore, ora là dentro sono quasi tutti uomini d’onore, quindi questo rispecchiamento è stato semplice. Il giorno in cui girammo la sequenza dell’uccisione di Cesare, continua Paolo, abbiamo chiesto ai nostri attori di trovare in se stessi la forza omicida, richiesta superflua, erano loro i primi ad essere consapevoli di dover guardare in faccia la realtà.
Quando diciamo che sono bravi è vero, è chiar o perché non tutti i carcerati possono recitare Shakespeare, è evidente che tra loro c’è chi ha del talento, nascosto o già espresso. Ma loro sono bravi in una maniera anche diversa nel senso che portano il loro talento e portano pure, forse senza rendersene conto, quando recitano, negli occhi, nello sguardo, nel parlare, nell’agire, nel reagire agli eventi, portano qualcosa che fa parte di una memoria drammatica, di un passato drammatico colpevole, vissuto veramente con rimorso, di un presente che è vivere in carcere, che è un inferno, quindi senza accorgersene loro in una tragedia portano anche questo”.
Un aspetto su cui i due registi intendono porre un accento particolare è quello del rapporto che si è stabilito con Salvatore Striano, Sasà, con Fabio Rizzuto, che interpreta Stratone, con gli altri attori: è qualcosa che ancora ci morde dentro, confessa Vittorio, ora loro due, Fabio e Salvatore, sono due uomini liberi e quindi ci sentiamo più tranquilli, non è così con tutti gli attori che, invece, non sono liberi e sono ancora in carcere. E’ innegabile, dice, che ci sia stato un rapporto di complicità, quella complicità che sempre si crea quando insieme si cerca una scheggia di verità attraverso un’opera, tutti quanti loro hanno cercato di essere se stessi pure interpretando personaggi diversi. Anche questa volta, ammettono entrambi, siamo diventati amici dei nostri attori, pur non dimenticando il dolore che possono aver cagionato alle vittime e ai loro familiari, li abbiamo seguiti nei loro giorni e nelle loro notti troppo lunghe, nelle quattro settimane in cui abbiamo che hanno del talento perché non è che tutti i carcerati possono recitare Shakespeare, girato a Rebibbia, da cui uscivamo la sera stanchi, ma spavaldi e incoscienti come eravamo quando giravamo i nostri primi film. Non vi è luogo dove la loro macchina da presa, per la prima volta digitale, dunque più leggera della tradizionale trentacinque millimetri, non sia entrata, nei bracci, nei cubicoli, nelle celle, per le scale, in biblioteca, ovunque tranne nel reparto isolato dei collaboratori di giustizia a cui nessuno può avvicinarsi.
Ha detto Sasà Striano di avere bisogno di un tempo per capire quello che sta succedendo, lui non ci è abituato e non è che succeda spesso, il solo fatto di avere lavorato con Paolo e Vittorio ha significato tutto, altro non sa e non può dire. Sasà, che nel film interpreta Bruto, ha conosciuto il carcere minorile, scontando poi a Rebibbia la sua condanna che era di quattordici anni e otto mesi, ridotta per l’indulto a sei anni e dieci mesi, e dal duemilasei è un uomo libero, tornato in carcere per esigenze di spettacolo, potremmo dire. Un talento, il suo, già scoperto da cinema e teatro, è stato uno degli interpreti di Gomorra, il film premiatissimo di Garrone, ha lavorato con Abel Ferrara, e con altri registi; ha interpretato un ruolo importante nella Tempesta portata in teatro da Umberto Orsini, per lui è come se davvero l’arte avesse tracciato un cammino separato dalla vita che si è lasciato alle spalle.
Un messaggio simile possiamo coglierlo nella scena conclusiva del film in cui Cosimo Rega, poeta, ergastolano, interprete di Cassio, al termine della rappresentazione, fa ritorno in cella e, mesto, volge lo sguardo alla macchina da presa, pronunciando una frase emblematica del potere dell’arte di riscattare la vita, nel bene e nel male, di avviare un percorso di autocoscienza inarrestabile: “Da quando ho conosciuto l’arte, questa cella è diventata una prigione”.
Uno dei pregi del film è proprio quello di non confondere la recitazione dei detenuti con la loro vita, due trame distinte, la leggerezza declamatoria dell’arte, la cella e il rigore, irriducibili l’una all’altra, eppure il passaggio successivo è quello indicato dalle parole dei Taviani che così hanno ricordato la premiazione del film: “Siamo saliti sopra e la prima cosa a cui abbiamo pensato sono stati quegli attori, quei detenuti che hanno recitato per noi e abbiamo detto: Speriamo che quando questo film verrà visto, chi vede questi volti, chi vede questi uomini, si ricordi che è vero, possono aver commesso degli omicidi, delle colpe orrende, ma che sono e restano uomini”.