David Bowie e Lou Reed. Lou Reed e David Bowie. Difficile pensare l’uno senza l’altro. Uno newyorchese, l’altro londinese, campioni di quello che per una breve stagione venne definito dalla critica “rock decadente”. Molto legati l’uno all’altro, anche se a fasi alterne. Entrambi morti a New York.
Bowie (in questi giorni è in corso al MAMBo una mostra dedicata alla carriera di David Bowie) fu indispensabile per far decollare la carriera di Reed, producendo il suo secondo lavoro solista, quel Transformer che lo trasformò da eroe “maledetto” a star internazionale. Bowie era stato però a sua volta fortemente influenzato dai lavori seminali (e all’epoca misconosciuti), dei Velvet Underground, il gruppo con il quale Reed aveva iniziato la sua carriera, nel 1966, nonché dalla Factory di Andy Warhol, all’interno della quale i Velvet erano cresciuti.
In questo articolo vogliamo mettere a confronto i due testamenti musicali che David Bowie e Lou Reed ci hanno lasciato, negli ultimi dischi realizzati prima della loro scomparsa, Lulu di Lou Reed, inciso con la band dei Metallica e pubblicato nell’ottobre del 2011, e Blackstar di Bowie, uscito, come sanno anche le monache di clausura, l’8 gennaio scorso, due giorni prima della morte del Duca Bianco. Abbiamo scelto due brani: Junior Dad da Lulu, senza dubbio il più significativo dell’opera, e Blackstar dall’album omonimo (qui un dubbio in effetti si pone: avremmo potuto prendere anche Lazarus, con quel suo incedere scandito dal basso, che fa molto Cure, e quel suo video che allude esplicitamente alla morte, ma anche alla morte/rinascita, vero tòpos antropologico. Quanto diremo riguardo a Blackstar, dunque, vale in parte anche per Lazarus, essendo i due brani intimamente legati, finanche dai rispettivi video).
Una considerazione iniziale: in questi che sembrano, con ogni evidenza, due veri e propri testamenti musicali, quali solo due grandi artisti potevano realizzare, sentendo l’ombra della Signora con la falce sulle proprie spalle, emergono una volta di più le caratteristiche principali delle loro poetiche. In Lou a dominare è il realismo, per quanto corretto da un’attitudine lirica, sentimentale, la capacità di raccontare storie e di dar vita a personaggi credibili con pochi tratti, di evidente ascendenza letteraria (Reed come noto da giovane aveva studiato alla Syracuse University con il poeta e scrittore Delmore Schwartz).
In Bowie emerge invece l’inclinazione verso il lato simbolico, esoterico, criptomassonico, quello che ha portato il suo produttore Tony Visconti a rimarcare, anche recentemente, che il fascino di molte canzoni derivava dal fatto di non essere esplicite, di prestarsi a diverse interpretazioni, di alludere a realtà “altre” (e ad altri mondi. Bowie, da ragazzo divoratore di libri di fantascienza, è stato l’alieno del rock per eccellenza, sul palcoscenico e, in misura minore, nel cinema).
Nel nome del padre
Partiamo con Junior Dad. In un disco tutto dedicato ad un personaggio letterario, la Lulu creata dallo scrittore austriaco Frank Wedekind a cavallo fra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, questa canzone, lunghissima, è l’unica che prende le distanze dal resto della storia. Essa non ha quindi direttamente a che fare con il personaggio letterario. Chiude il doppio album, ma non racconta della tragica femme fatale che sulla carta (e così sul disco) finisce scannata da Jack lo Squartatore.
Junior Dad è una canzone che parla della vecchiaia e della morte. Di Lou ma anche di suo padre (mai amato, in vita), in un toccante gioco di specchi. C’è in origine una richiesta d’aiuto: “Verresti in mio soccorso se stessi per affogare?”. Potrebbe essere il figlio che si rivolge al padre. Ma anche Lulu che si rivolge al dottor Schön, uno dei personaggi dell弛pera di Wedekind: Vorresti essere il mio signore e salvatore? Tirami su per i capelli. Ed ora mi baceresti, sulle labbra?.
Interviene qualcosa che assomiglia al ricordo di un discorso pronunciato in un tempo lontano, un amaro discorso: “insegnerò meschinità, paura e cecità, nessuna idea sociale redentrice”. Potrebbe sembrare che il figlio stia rimproverando il genitore per l’educazione ricevuta, così lontana dai valori che ci si attenderebbe vengano trasmessi da un padre a un figlio. Ma quel ricordo, e quelle parole, introducono anche un’epifania. “Oh, stato di grazia…”, mormora il cantante. Nel ricordo le cose cambiano di segno, perdono i loro connotati negativi, vengono rimpiante nonostante tutto. Nel ricordo ritroviamo un pezzo della nostra identità, giustifichiamo e ordiniamo le scelte che abbiamo compiuto durante la nostra vita.
Non finisce così, non ancora. C’è un verso criptico, subito dopo. “: il sogno è finito
Fai il caffè; accendi la luce”. Forse è il sogno del padre giovane fatto dal figlio Lou, ora anziano, a svanire con le prime luci del mattino. Così ora il figlio si alza, prepara il caffè, contempla con l’occhio della mente, ancora eccitata dal sogno, il fantasma del padre, un padre bambino perché ritornato bambino con la vecchiaia. Il figlio si guarda allo specchio, vede il fantasma del padre ma vede anche se stesso, vede solchi dove un tempo la guancia era liscia. È lui il padre, ora: Lou è identico al padre vecchio e morente, anzi già andato in cenere, quel padre che gli era sembrato immortale e che gli ricorda la sua mortalità, il comune destino di ogni uomo.
La grande delusione
“Di’ ciao al papà giovane, la delusione più grande. L’età lo ha avvizzito e trasformato in un padre junior (barbarie psichica)”.
Lou Reed aveva già cantato della vecchiaia, ad esempio in Change, dal penultimo The Raven (anch’esso ispirato dalla letteratura, da E. A. Poe). E anche in quell’occasione, lo aveva fatto con toni non lusinghieri . Ma non aveva mai usato questa lama spietata. Non c’è consolazione, alla fine della corsa. Lou Reed, come un filosofo stoico, guarda in faccia la fine dell’esistenza, il suo stesso disfacimento. Ciò che rimane è “la più grande”.
E tuttavia, Junior dad non è un racconto, è una canzone, e la musica può venirci incontro, fornendo anche una diversa chiave di lettura, almeno nel finale. Junior Dad è una canzone strana, anche se negli anni ’70, quando gli artisti erano più liberi e creativi, non sarebbe sembrata tanto più strana di un album come Metal Machine Music o anche Low di Bowie, una facciata di canzoni rock e un’altra di brani quasi sepolcrali suonati col sintetizzatore.
Anche qui: la prima parte è canzone vera e propria, un pezzo rock elettrico, di quasi 10 minuti.
Ma sul finale l’elettricità condensata sfuma, la batteria batte il tempo un’ultima volta e in pochi secondi la tensione si allenta, sfocia in una piana ambient. Iniziano altri 8 minuti di musica, stavolta senza una parola. Solo un’algida onda elettronica, un orizzonte scarno ed essenziale, zen. Forse è questa la chiave di lettura finale che Lou Reed ha voluto dare al disco della sua vecchiaia. Oltre la delusione per la visione di ciò che la vecchiaia realmente è, corruzione e morte, la considerazione del nulla, l’accettazione, persino… la pace? Shanti, come si chiude il Wasteland di T.S. Eliot.
Lo sguardo verso il cielo
E veniamo a Blackstar, canzone che dà il titolo all’album omonimo, e che ritroviamo anche nella copertina del disco (in cui Bowie non compare. Sue foto sono presenti solo all’interno della confezione).
Anche qui siamo in presenza di un brano molto lungo, quasi 10 minuti: il secondo più lungo della carriera dell’artista, è stato calcolato, dopo Station to Station, canzone nella quale Bowie incarna i panni del Sottile Duca Bianco, anch’essa dal significato oscuro, con espliciti rimandi alla Cabala ebraica e alla cocaina (chi scrive ha pensato anche ad un’altra canzone lunga/suite, Sweet Thing, da Diamon Dogs).
Se questo è il testamento del Bowie che cantò l’avventura dell’uomo nello spazio (in Space Oddity, calandosi nel panni di Major Tom) e che inventò uno dei personaggi più longevi – e più moderni – della storia del rock, l’alieno Ziggy Stardust, che rivela all’umanità che mancano 5 anni alla fine del mondo (eravamo nel 1972), possiamo dire che, di nuovo, lo sguardo è rivolto al cielo. Cos’è infatti una Stella nera? In astronomia, è una parente stretta del Buco nero, ovvero della stella che implode sul suo centro sviluppando un immenso campo gravitazionale, così potente da attirare persino la luce. Stella nera, buchi neri: la metafora è sinistra ma anche affascinante, perché le proprietà di questi corpi celesti sono solo in parte conosciute (o meglio, ipotizzate). Ma Stella nera, è anche un modo per definire l’eclisse, e i bene informati suggeriscono che l’eclisse è un evento propizio ai riti.
“Sono una stella nera”, canta Bowie, inoculando, forse per sdrammatizzare, o depistare, un po’ di cupa ironia nelle rime, “non un gangster, non una stella del cinema”. E poco dopo: “Seguimi, ti porterò a casa”, appropriandosi del ruolo di guida, sacerdote, o quantomeno veggente, anche se sul viso porta una benda e dei bottoni in corrispondenza degli occhi (come anche nel video di Lazarus).
L’andamento del brano sembra suggerire in effetti qualche parentela con Station to Station. Anche qui abbiamo tre momenti musicali distinti, il primo lento, mistico, sepolcrale nel cantato, pur se scandito da una ritmica serrata, quasi trip-hop, gli altri due più dinamici (in chiusura si torna al tema iniziale).
Il nero è la nuova luce
Per decifrare – meglio, decodificare – il significato della canzone è impossibile non rifarsi al video, complesso, sontuoso, decisamente inquietante. Girato da Joan Renck, farà la gioia di coloro che vedono nel rock uno strumento del diavolo.
All’inizio una ragazza aliena, un’aliena selvatica, dotata persino di coda, scopre i resti di un astronauta, in un pianeta arido, di rocce scavate. Gli toglie il casco e, sotto, quel che è rimasto è solo – si fa per dire – un teschio, con una corona tempestata di gemme. Non c’è chi non abbia pensato al Major Tom, che si era perso nello spazio nel 1969, e che avevamo già ritrovato in Ashes to Ashes del 1980, quando malinconicamente Bowie cantava che “il Major Tom adesso è un drogato”. Ma poi il teschio viene utilizzato dalla ragazza in una sorta di rito pagano, in cui i giovani danzatori, seminudi, si muovono a scatti, all’ombra di una stella nera. Una cerimonia – di possessione? – che culmina nella posa del teschio sulla schiena della ragazza, piegata in una posizione implicitamente sessuale.
Il testo suggerisce anche altre piste. Dove siamo, innanzitutto? “Nella villa di Ormen”. E qui brilla “una candela solitaria”. La villa di Ormen (ovvero del “Serpente”) rimanda ad un romanzo del giornalista e scrittore norvegese Stig Dagerman, morto suicida nel 1954, a soli 31 anni (i suoi libri sono pubblicati in Italia da Iperborea), ma per qualcuno, in una lettura esoterica, ispirata agli insegnamenti di Aleister Crowley e della Golden Dawn, sarebbe una sorta di anti-Gerusalemme.
Nel secondo movimento del brano, ecco ancora Bowie, senza bende, con un libro in mano recante una grande stella nera in copertina. È con ogni probabilità il Bowie-profeta, la Stella nera a cui i giovani seguaci guardano come ad una nuova luce.
Cosa è successo nel frattempo? “Il giorno della sua morte è successo qualcosa. Lo spirito è salito di un metro e si è fatto da parte. Qualcun altro ha preso il suo posto e coraggiosamente ha urlato: “Sono una Stella nera”. Nel Libro tibetano dei morti (un’altra delle fonti di ispirazione di Bowie, assieme a Crowley) lo spirito deve allontanarsi, ovvero abbandonare il ciclo di morte-rinascita a cui l’uomo è incatenato, per raggiungere l’illuminazione. Ma si può cadere in tentazione, si può tornare, e tornare. “Quante volte cade un angelo? Quante persone mentono invece di parlare di fatti scomodi? Egli calpestò la terra consacrata, gridò rumorosamente in mezzo alla folla: sono una Stella nera”.
Si potrebbe andare avanti così per pagine, ipotizzando letture oblique, individuando simboli i fra le pieghe della canzone e del video. Cosa sono ad esempio quei tre spaventapasseri nel finale, simili a tre uomini inchiodati ad altrettante croci, che dimenano i fianchi un po’ oscenamente? È dal mondo rurale, dal ciclo dei campi e delle messi, sottoposto a sua volta al ciclo delle stagioni, che vengono i riti di morte/rinascita (quelli di cui parlavano anche i Traffic in John Barleycorn must die). Ma tre croci drizzate le troviamo solo sul Golgota.
“Il giorno dell’esecuzione, solo le donne si inginocchiavano e sorridevano”. Perché tanta importanza alla figura femminile? Chi è rimasto fino all’ultimo ai piedi della Croce? E a chi è comparso, per primo, Gesù, dopo la Resurrezione?
Morti e non
Fermiamoci qui. Il disco di addio di Bowie e quello di Lou Reed di 5 anni fa, mostrano artisti ancora molto ispirati, capaci di sperimentare e di rimettersi in gioco, infischiandosene delle regole del music business.
I loro testamenti musicali mostrano, com’è ovvio, anche notevoli differenze. In Junior dad c’è il confronto, poetico e commovente, con la vecchiaia e la mortalità. Lou Reed si rivela ancora una volta un autore capace come pochi di raccontare l’animo umano in musica, ponendosi sulla scia dei grandi scrittori della letteratura americana, dal suo maestro Schwartz a Hemingway o a Carver.
In Blackstar (ma anche, come abbiamo detto, in Lazarus e altri episodi del disco di Bowie), abbiamo invece un approccio al tema della morte che si colora di tinte gnostiche, esoteriche. Il pensiero corre anche ad alcuni classici dell’antropologia di scuola inglese, a partire da James Frazer, autore del Ramo d’oro, studio fondamentale (e monumentale) sui riti di rigenerazione che accomunano un po’ tutte le culture umane, compresi quelli basati sull’uccisione rituale del dio/sacerdote, affinché un successore prenda il suo posto. Bowie ha pensato forse che – in qualche modo, in qualche forma – sarebbe tornato?