“Mia nonna sapeva sempre quali patate usare per fare gli gnocchi”, scrive Luca Cesari in Storia della pasta in dieci piatti (il Saggiatore). Sì, anche mia nonna lo sapeva, mentre io non lo so e non mi sono mai cimentata a fare gli gnocchi. L’altra sera al ristorante mi hanno servito degli gnocchi al pesto e code di scampi, un piatto gradevole, ma ho pensato: quanto sono lontani come gusto da quelli della nonna; senza questo condimento non saprebbero di niente. Quelli della nonna erano fragranti: un impasto di patate, farina, uova… ed amore.
Le fettuccine al burro, l’amatriciana, la carbonara, gli gnocchi, i tortellini alla bolognese, il ragù alla napoletana, il ragù alla bolognese, le lasagne, il pesto alla genovese, gli spaghetti al pomodoro sono le dieci più famose pietanze italiane e i dieci capitoli di questo libro che ne raccontano la storia dagli albori. A me ricordano fatti della mia vita.

Le fettuccine al burro sono un piatto semplicissimo. Ciò che fa la differenza sono la qualità del burro e l’abbondanza del parmigiano. Ho sempre detestato la pastasciutta, solo in età adulta ho cominciato ad apprezzarla. E doveva essere abbondantemente condita di sugo. Pasta al burro, per carità. Verso la fine degli anni ’90 conosco il conte Giuseppe Maria Perrone di San Martino, l’ultimo dandy italiano – che è stato press agent di attori del calibro di Montgomery Clift, Anthony Queen, Charlie Chaplin, Enrico Maria Salerno, Jean Cocteau, Giorgio Albertazzi – mi invita a pranzo e mi fa conoscere e apprezzare le tagliatelle al burro. Tanto che diventa un appuntamento ricorrente andare a gustarle assieme in un ristorante di via Veneto, a Roma. Lui non c’è più dal 2010, ma io, quando mi viene voglia di tagliatelle al burro, mi monta una gran nostalgia del mio amico. Ed evito le tagliatelle, perché so che non saranno mai più così buone.
Già nel Medioevo non si concepiva la pasta se non abbondantemente cosparsa di formaggio. Il Boccaccio nel Decameron, scrive Cesari, aveva immaginato il paese del Bengodi dove c’era una montagna tutta di formaggio grattugiato dalla quale rotolavano a valle maccheroni e ravioli perfettamente incaciati e pronti da mangiare. Da qui il detto: “Come il cacio sui maccheroni”.

Cesari intitola un capitolo: “La dolce vita della carbonara”, perché la prima ricetta della carbonara è americana. Nel 1952, Patricia Bronté scrisse una guida illustrata dei ristoranti del distretto di Chicago: Vittles and vice: an extraordinary guide to what’s cooking on Chicago’s Near North Side. Alla fine degli anni ’50 è una ricetta pienamente affermata tra gli attori di Hollywood. Negli anni ’80 studiavo all’università di Bologna giurisprudenza quando fui invitata a casa di amici studenti greci che mi offrirono un piatto di spaghetti alla carbonara. Non mangiavo spaghetti, tantomeno avevo mai assaggiato questo piatto, ma essendo una persona educata, mi sforzai. Li trovai squisiti. E se guardo indietro negli anni posso dire anch’io: è stata una dolce vita. E non lo sapevo.
E il tortellino come nasce? La leggenda narra che un oste di Castelfranco Emiliano avesse ospitato nientepopodimeno che la dea Venere nella sua locanda e avesse potuto scorgere il suo ombelico. Dopodiché fu pervaso da una vena creativa e ideò il tortellino.
Cesari disserta per 40 pagine sulle diverse origini del ragù dimostrandoci che sotto ogni campanile italiano è sorta una ricetta esclusiva. Ma sulle lasagne non si litiga sulla provenienza, perché già il poeta latino Orazio scriveva che la sera lo attendeva una cena di “porri, ceci e lagane”.
L’autore, con questa sua ricerca storica, dà scacco matto al gastropurista, ossia il nuovo sacerdote della tradizione culinaria italiana, colui che sa sempre quali siano gli unici e insostituibili ingredienti. Invece, i piatti della tradizione non sono sempre stati identici e sono molti diversi dalla ricetta che li ha originati.
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