Anno 2021: in un’Università detta di “colore”, La Howard University, un consiglio direttivo ha decretato di bruciare il Logos, quello che Giovanni identificò con Cristo e la salvezza dell’Uomo: «In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta».
Motivo della cancellazione: la letteratura classica è espressione di pericolosi «dead white males», uomini bianchi morti: «l’ateneo ha deciso di chiudere il Dipartimento dei Classici come parte dei suoi sforzi di prioritarizzazione e sta attualmente negoziando con la facoltà e con altre unità del college su come meglio riposizionare e riutilizzare i nostri programmi e il personale. Queste discussioni si sono svolte in un clima cordiale, e la facoltà rimane fiduciosa che il dipartimento possa essere mantenuto intatto a un certo livello, con la sua facoltà e i suoi programmi».
Si poteva comprendere il progetto della deregulation reaganiana degli anni ‘80, che il filosofo Allan Bloom battezzò «la chiusura della mente americana». Essa ebbe forte risposta nel capolavoro di un autore della mia educazione, da Dangling Man a Herzog, Saul Bellow con Ravelstein.
Già in questa Voce ho parlato della biblioteca dei rifondatori degli USA e delle radici della Library of Congress che mi ospita, oggi posso aggiungere note sparse e fugaci del Washington Post, dei classici radice della formazione di eroi della lotta per i diritti civili dei neri, «da Frederick Douglass che leggeva di nascosto Cicerone e Omero a Martin Luther King che da ragazzino in seminario si innamorò dei greci e nella sua Lettera dal carcere di Birmingham, testo sacro dell’antirazzismo, cita per tre volte Socrate».
Tralascio i lamenti e il “grido di dolore” su decadenza spirituale, declino morale, profonda chiusura intellettuale, settarismo razzista e culto della razza, in un popolo trapiantato che ancora oggi viene soffocato materialmente su una pubblica via. Nessuno escluso che abbia un po’ di cervello può non essere sconcertato da una simile cassazione, proprio considerando la parte da cui proviene. Perciò questo rigurgito, espresso da un ridicolo e vomitevole “cancel-culture” eproclamato anche da un cultore di storia romana Dan-el-Padilla Peralta dell’Università di Princeton, secondo il quale la letteratura classica ha contribuito a creare una “white culture” da cui sono derivati colonialismo, razzismo, nazismo e fascismi. Perciò la sua condanna a morte: «Non voglio aver più niente a che fare per come è stata finora insegnata. Spero che questo campo muoia, e che muoia il più presto possibile».
Dovrebbe pur spiegarci a questo punto con quale cultura vuole sostituirla. Con il progetto chiave che è dei bianchi insegnato da bianchi per «develop the Leardership skills to Advance Your Career, Team, and organization»? Naturalmente adottando come base di educazione e formazione culturale la tradizione in genere orale dei popoli africani di provenienza.
Quindi il rogo del Logos e il riciclo degli insegnanti da “disperdere in altri dipartimenti”, adibiti a diffondere o pulire le cattedre. In un’Università che si occupa delle scienze dei bianchi extra-ricchi è possibile che tutto ciò avvenga contro il razzismo?
Mi sa tanto di moda forcaiola femminista, ove l’uomo si scambia con il maschio. Fu un tempo che la forma di cancellare il Logos, il pensiero che l’uomo si era creato nei secoli attraverso metamorfosi fisiologiche – si sa oggi che la massa cerebrale si è adattata nei secoli alle competenze richieste nelle società del tempo – e innesti culturali in cui nulla è unico ed immutabile, ma tutto si va arricchendo per perenni addizioni. Nell’evoluzione biologica dell’essere dotato di Logos esiste solo il segno più. Sappiamo cosa è successo nei tempi della sottrazione.
Lì, nella Piazza dell’Opera, il lancinante aforisma di Heinrich Heine (1797-1856) nel 1823 scolpito nella sua tragedia Almansor sulla bocca di Hassan, quando Almansor gli descrive il Corano in una pira in fiamme: «Dort, wo man Bücher verbrennt, verbrennt man am Ende auch Menschen», cioè «Là dove si bruciano i libri si finisce per bruciare anche gli uomini». Lì vicino alla mia Unter den Linden che così mi apparve una splendida mattina dalla parte della DDR: «Bianche colombe dormienti / nella terra di nessuno / ridevano forte / delle mani tese dell’uomo / che taglia il cuore con un muro» (Carmelo Fucarino, Città e ancora città, Palermo 893).
Fu allora, la notte del 10 maggio 1933, in una piazza strapiena di quarantamila berlinesi, ove Joseph Goebbels gridò: «No alla decadenza e alla corruzione morale! Sì alla decenza e alla moralità nelle famiglie e nello stato! Io consegno alle fiamme gli scritti di Heinrich Mann, Ernst Gläser, Erich Kästner. L’era dell’intellettualismo ebraico è giunta ormai a una fine. La svolta della rivoluzione tedesca ha aperto una nuova strada … L’uomo tedesco del futuro non sarà più un uomo fatto di libri, ma un uomo fatto di carattere. È a questo scopo che noi vi vogliamo educare. Come una persona giovane, la quale possiede già il coraggio di affrontare il bagliore spietato, per superare la paura della morte, e per guadagnare il rispetto della morte – questo sarà il compito della nostra nuova generazione. E quindi, a mezzanotte, giungerà l’ora di impegnarsi per eliminare con le fiamme lo spirito maligno del passato. Si tratta di un atto forte e simbolico – un atto che dovrebbe informare il mondo intero sulle nostre intenzioni. Qui il fondamento intellettuale della repubblica sta decadendo, ma da queste macerie la fenice avrà una nuova trionfale ascesa.
Era l’eterno ardente rogo rituale, il predominio del potere con la demolizione della libera cultura e la sua conquista, perché esprimesse lo spirito del popolo contro l’arte degenerata dei non tedeschi.
Nei Bücherverbrennungen arsero migliaia di opere di autori che avevano “corrotto” e “giudaizzato” la cultura tedesca, a cominciare proprio da Heinrich Heine a Karl Marx Bertolt Brecht, Joseph Roth, Herbert Marcuse, Hannah Arendt, Albert Einstein, Sigmund Freud, Ernest Hemingway e addirittura Jack London.
Era il seguito del proclama del 6 aprile da parte dell’Ufficio della Stampa e della Propaganda dell’Associazione studentesca di un’azione “contro lo spirito non tedesco”. Non fu l’ultimo nel mondo occidentale e neppure il primo nella storia del pensiero. Non c’è popolo senza un falò, il rogo del pensiero, la censura, il rogo del libro come strumento. La Cina ricorda il suo imperatore del 213 a. C. Qin Shihuangdi. Il rogo dei libri di Ario nel 325, dopo il primo Concilio di Nicea. Giustiniano I nel 562 nella mistica della cristianizzazione, chiuse la Scuola neoplatonica sopravvissuta a tante persecuzioni, bruciò libri ed immagini, abbattette statue pagane.
Tra il 1497-98, il domenicano Girolamo Savonarola a Firenze ordinò di bruciare “pila situ di vanità” libri, dipinti e giochi e cosmetici. Così con Lutero i falò dei suoi testi da parte di Leone X e i suoi roghi a Wittenberg dei libri papisti. Nel 1660, sotto il re francese Luigi XIV, il Consiglio di Stato ordinò il rogo delle Lettres provinciales di Blaise Pascal.
Poi venne Robespierre e nel 1793 ordinò il rogo delle biblioteche religiose e dei libri di letteratura glorificante dei re francesi, in nome della dea Ragione. Ma sentite nel 1854, l’attivista per i diritti civili William Lloyd Garrison bruciò la Costituzione degli Stati Uniti come documento di schiavitù durante una riunione di abolizionisti a Framingham, Massachusetts. Sotto la mia esperienza ricordo i falò di Mao e il suo libretto rosso brandito come vangelo; non erano idiozie, ma certo eclatanti aforismi di nessuna scienza e cultura.
E infine dal 1998, i leggendari talebani che vollero emulare i Crociati del doge Dandolo e del papa Innocenzo III nel sacco di Costantinopoli del 1204, del quale ci fa inorridire Niceta Coniate, nel 2001 vittime dei cannoni le grandiose sculture rupestri di Buddha nella valle di Bamiyan in Afghanistan, ree di perpetuare una pacifica religione.
Così avevo già scritto in una recensione a un saggio sulla biblioclastia, il pregevole testo di Gino Pantaleone da titolo esemplare Liber: «È mia convinzione, solida come un articolo di fede, che qualsiasi scritto, pensiero o semplice comunicazione, è degno di essere letto, dal trafiletto di un annunzio alla sintesi dell’umana esistenza, I fratelli Karamazov. Pertanto non consiglierò mai di abbandonare un libro, perché nell’approccio risulta noioso, arido o oscuro, secondo quella falsa teoria dell’incipit perfetto, spia di tutto il testo. È sempre espressione di un’anima, il pensiero che si fa vita. C’è un’altra ragione di grandissimo peso: capita che l’abbrivio sia stentato e si riveli poi lo slancio fulminante, la profondità abissale. Le ricevute del cuneiforme o l’onomastica del lineare B sono storia del pensiero quanto Il libro dei morti. Questo volevo premettere, a scanso di scelte elitarie e perciò velleitarie. Credo poco all’aureola di bestseller e reputo che i capolavori sono soggettivi come il concetto di bello e di brutto. Eco docet.».
Per chiudere con la più grande biblioclastia letteraria nella distopia del 1953 di Ray Bradbury (Fahrenheit 451): «Era una gioia appiccare il fuoco. Era una gioia speciale vedere le cose divorate, vederle annerite, diverse». «Un libro è un fucile carico nella casa del tuo vicino. Diamolo alle fiamme! Rendiamo inutile l’arma. Castriamo la mente dell’uo