Andrew Spannaus è un giornalista e analista politico americano, noto per aver anticipato la rivolta populista negli Stati Uniti e in Europa con i suoi libri Perché vince Trump (2016) e La rivolta degli elettori (2017). Fondatore della newsletter Transatlantico.info, collabora con Consortium News e Aspenia, e commenta la politica americana per Rai News 24 e RSI (Radiotelevisione svizzera). È stato Consigliere Delegato dell’Associazione Stampa Estera di Milano dal 2018 al 2020 ed è docente nel Master in Economia e politiche internazionali all’ASERI, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

L’America ha una Dichiarazione di Indipendenza che sancisce il diritto alla “rivoluzione” qualora il popolo ritenga di vedere minacciati i diritti fondamentali. C’è una supremazia dell’individuo sulla società e sulle istituzioni. Oggi è evidente che i più accaniti detrattori dell’America e dei suoi valori democratici siano gli stessi americani. Come ha vissuto lei da americano l’ assalto a Capitol Hill?
“Gli eventi del 6 gennaio sono stati uno choc per tutti, e mi hanno toccato direttamente per via delle mie esperienze passate. Mi spiego: qualche decennio fa anch’io sono stato a protestare davanti alla Casa Bianca e al Congresso, più di una volta; contro le guerre, per i diritti civili. Capisco benissimo come si sentono molti manifestanti in quella situazione, affermando il diritto di farsi sentire dai rappresentanti politici nella “casa del popolo”. Altri, invece, hanno attraversato una linea e commesso azioni gravissime, attaccando la polizia e pensando di bloccare il funzionamento delle istituzioni repubblicane. Le forze d’ordine non erano preparate, dopo aver sottovalutato la situazione, ma per fortuna nessuno negli apparati dello stato ha offerto sostegno alla follia sviluppata in quei giorni. Quindi non si può parlare di “golpe,” ma la ferita rimarrà a lungo, perché come dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, perderemo altri spazi di libertà: quel diritto di protestare, di sentire le istituzioni come nostre, sarà molto più difficile da vivere, a causa di una piccola minoranza influenzata da un presidente fuori controllo”.
“Il più grande successo di Donald Trump è di non aver fatto una nuova guerra. È il primo presidente dopo Jimmy Carter”. Cito un passo del suo libro, L’America post-globale. Che valore attribuiscono gli americani a questa cosa?
“L’opposizione diffusa alle guerre all’estero viene spesso sottovalutata dai media e dagli analisti politici. Barack Obama vinse le primarie contro Hillary Clinton nel 2008 con le critiche alla guerra in Iraq e la promessa di usare la diplomazia piuttosto che le bombe, e ancora oggi molti sostenitori di Trump utilizzano in modo molto efficace questo tema per criticare i politici centristi; si veda il caso di Liz Cheney, che si presenta come repubblicana responsabile rispetto agli eccessi di Trump, ma lo ha sempre criticato per la sua volontà di abbandonare gli interventi militari stile neoconservatore. Io sono rincuorato dal fatto che la maggior parte degli americani riconosce gli errori della politica estera degli ultimi decenni, che smentisce anche le letture davvero semplicistiche di una popolazione tendenzialmente becero e cowboy in politica estera. Forse anche le istituzioni permanenti cominciano a capire che non possono ignorare l’opinione pubblica; a questo Trump ha senz’altro dato un grande contributo”.
I tagli ai fondi per affrontare le pandemie hanno messo in ginocchio di Stati Uniti (come molti altri paesi al mondo) che con un sistema sanitario “frammentato e lacunoso” come lo definisce lei, stanno pagando un prezzo altissimo. Quale è stato l’errore più grande di Trump nella gestione di questa emergenza e cosa ha fatto di buono invece?
“Trump ha sottovalutato la pandemia dall’inizio – come tanti – ma soprattutto l’ha politicizzata. La sua più grande debolezza, a mio avviso, è stata l’incapacità di parlare a tutta la popolazione. E’ bravo a essere “di lotta”, ma fa fatica a essere “di governo”, non solo perché ha trovato opposizione e critiche, ma perché non riesce proprio a concepire un messaggio di unità. A livello complessivo l’andamento della pandemia sotto Trump non è stata tanto diversa da quella in tanti altri paesi; ma sarebbero bastate poche cose in più per migliorare di molto la situazione. Invece Trump ha politicizzato l’utilizzo delle mascherine, ha dato un’immagine di superficialità e di litigiosità, e ha spinto per una riapertura rapida per paura degli effetti politici della crisi economica. Dall’altra parte lo sviluppo dei vaccini è stato un successo enorme, e il federalismo americano non permette nemmeno al presidente di imporre decreti come in Europa”.
Obama e Trump sono stati entrambi eletti (parlo di voto popolare) per opporsi a una élite, a conti fatti, tra i due, chi ha deluso maggiormente le aspettative degli elettori secondo lei?
“Tra Obama e Trump c’è un abisso nel modo di affrontare la politica e le istituzioni, quindi serve una visuale molto ampia per fare un paragone. In termini di risultati immediati Barack Obama ha avuto più successi, ma se guardiamo alla traiettoria generale degli Stati Uniti, in economia e in politica estera, vediamo che in fin dei conti Donald Trump ha impresso una svolta le cui conseguenze sono enormi. Di fronte al paradigma della globalizzazione Obama ha tentato dei correttivi, come l’aumento parziale dello stato sociale, e ha iniziato ad abbandonare la politica di cambiamento di regime, ma con fatica e solo dopo aver contribuito al problema inizialmente (la guerra in Libia, per esempio). Trump rappresenta un tentativo di rottura netta, invece, e nonostante l’apparente incoerenza di alcune sue azioni, si può affermare che la sua presidenza ha marcato un punto di svolta: nelle istituzioni americane c’è una nuova consapevolezza della necessità di un maggiore ruolo dello stato in economia, e di un nuovo approccio alla sicurezza nazionale e ai rapporti strategici”.

Parlando di oggi, dalla campagna elettorale abbiamo capito che il neo Presidente Joe Biden vuole riproporre quella che è stata la politica estera di Obama, probabilmente cambiando un po’ di cose, togliendosi anche qualche sassolino dalla scarpa come ritirare le truppe statunitensi dall’Afghanistan. Secondo lei quali dovrebbero essere gli errori da evitare assolutamente?
“Biden ha addottato un tono molto diverso da Trump, ma questo non significa che cambieranno gli interessi fondamentali perseguiti dagli Stati Uniti. Per ora mostra di aver capito la necessità di fare una sintesi che tenga conto delle novità introdotte negli ultimi quattro anni. Darà più peso alla questione dei diritti umani, ma come sempre questo tema rappresenta una potenziale trappola: deve evitare di farsi trascinare in nuove avventure militari – o espandere quelle esistenti con continui bombardamenti e operazioni clandestine – nel nome dell’opposizione ai cattivoni, che siano in Medio Oriente o altrove. Biden non vuole sembrare debole, ma sarebbe un errore cedere alle richieste di chi – anche da sinistra – abbraccia ancora l’idea che la democrazia si esporta con la forza”.
Le faccio una domanda che ho fatto anche a Giovanni Castellaneta, ex ambasciatore italiano negli Usa, Joe Biden ha da tempo un legame personale con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, cosa pensa che cambierà nei rapporti tra i due paesi?
“Nonostante il lungo rapporto con Netanyahu, Biden ha fatto capire che lui è un grande sostenitore di Israele come nazione, e molto meno dell’attuale primo ministro. Non intende subire le pressioni di Netanyahu – e nemmeno dei sauditi – ma capisce anche l’importanza di condividere i suoi piani con loro, proprio per smorzare l’effetto dell’inevitabile opposizione al tentativo di riaprire i negoziati con l’Iran”.
L’America soffre di razzismo sistemico che vede coinvolti non solo cittadini bianchi e di colore ma anche cittadini di classi sociali differenti, il presidente Biden è determinato a lottare con tutte le sue forze contro la discriminazione razziale, ma le domando: cosa può fare di più e di diverso rispetto al presidente Obama e con quali risultati?
“Anche qui assistiamo ad un cambiamento di tono netto rispetto al suo predecessore, ma per Biden la vera prova sarà nei fatti: quanto riuscirà a cambiare le condizioni di vita della gente svantaggiata negli Stati Uniti? E’ in atto un movimento politicamente corretto che tende a vedere tutto attraverso una lente razziale, che sta già provocando una significativa reazione collettiva. Suggerirei a Biden di concentrarsi più sulle iniziative concrete che sulla caccia al linguaggio offensivo o sulla censura in campo culturale”.

Che analogie ha trovato tra l’amministrazione Trump e i propositi della nuova amministrazione Biden?
“Ci sono molte aree dove gli obiettivi dell’amministrazione Biden ricalcano quelli di Trump. Quando Biden annuncia ordini esecutivi per comprare più prodotti americani e per rivedere le catene di valore per garantire la sicurezza economica nazionale, è evidente che ha capito l’importanza di voltare pagina rispetto alle politiche della globalizzazione degli ultimi decenni. L’intervento pubblico in economia è anche un punto di accordo tra destra e sinistra – contro il centro “moderato” – e Biden da centrista si è spostato verso posizioni interventiste per affrontare la situazione contingente. Infine c’è l’imperativo strategico: il contesto geopolitico dei prossimi anni sarà la “competizione intensa” con la Cina, anche sul piano tecnologico, che sta provocando un ripensamento di politiche interne e alleanze degli Stati Uniti; un punto su cui Trump ha trascinato le istituzioni americane”.
Joe Biden ha detto che sarà il presidente di tutti gli americani, ha qualche possibilità di convincere quei milioni di elettori di Trump secondo lei? Se si con quali argomenti, se no perché?
“Il linguaggio di Biden è inclusivo, ma saranno i fatti a fare la differenza. Ci vorrà molto tempo per ridurre il gap culturale, quindi la cosa migliore che potrà fare il nuovo presidente è di perseguire il “populismo di sinistra” sul piano economico, cioè quelle istanze che aiuteranno tutti quei cittadini che soffrono le difficoltà e le disuguaglianze del sistema attuale, conservatori o progressisti che siano. Se miglioreranno le condizioni di vita della gente, allora le altre divisioni diventeranno più gestibili; l’importante è fare progressi reali, senza cadere nella trappola delle guerre culturali, che conoscono eccessi da entrambe le parti”.