Dalla prima metà degli anni ’70, la cultura italiana ha vissuto per un decennio una rivoluzione di idee e costumi che hanno trovato espressione in film, libri ed eventi televisivi di grande spessore. Erano gli anni in cui il Bel Paese era alla ricerca di una sua nuova identità nei vari campi della cultura e della comunicazione, dal teatro serio, e per molti versi scomodo, di Strehler e della Compagnia della Rocca, al cinema colto di Michelangelo Antonioni, Gillo Pontecorvo, o di indagine sociale di Mario Monicelli, Ettore Scola o onirico-fantastico di Federico Fellini. E nel mondo della televisione Rai, approfittando del fatto che i canali privati erano ancora agli inizi, la qualità, più della quantità, era al centro delle scelte, con programmi che spesso cercavano più la riflessione, culturale ed umana, dell’utente e meno il suo intrattenimento.
Quegli anni culturalmente molto intensi li possiamo “riassaggiare” attraverso il libro Ritratti e autoritratti. Cinema teatro tv e la battaglia delle idee scritto da Felice Laudadio, allora attivo giornalista sulle pagine culturali dell‘Unità, in quegli anni secondo quotidiano nazionale per tiratura e distribuzione.
Il libro è stato presentato nel corso dell’undicesima edizione del Bif&st di Bari, di cui Laudadio è ideatore e direttore artistico. Lo abbiamo intervistato.
Com’è nata l’idea di questo libro?
“Per caso, dalla crisi che stiamo vivendo. Fin dalle prime fasi del lockdown si era capito che molto presto tutto si sarebbe fermato e avremmo avuto tanto tempo a disposizione in casa. Così un giorno mi è venuta l’idea – come penso sia capitato ad altri – di mettere un po’ a posto i miei libri, le mie tante carte accumulate negli anni: mentre cercavo di mettere un po’ d’ordine sulla scrivania mi è capitato tra le mani un faldone di cui non ne ricordavo più l’esistenza, perché l’avevo messo da parte quindici anni fa, e che conteneva le fotocopie di una parte degli articoli, delle interviste che avevo scritto per l’Unità verso la fine degli anni ’70 e i primo anni’80. Erano state fatte da mia moglie perché curiosa di leggere i miei articoli da giovane e per farle era dovuta andare alla biblioteca del Senato perché l’archivio dell’Unità era scomparso. Non sono interviste nel senso classico, perché io registravo nella testa quel che si diceva, senza mai prendere nota, senza registratore perché sapevo che quello che avrei scritto sarebbe stato quello che avevo esattamente memorizzato. Difronte a tutto quel materiale ritrovato ho cominciato a riflettere da presidente del Centro Sperimentale di Cinematografia, a pensare ai tanti lavori degli allievi che sarebbero saltati causa il lockdown, e a rendermi conto di come la parola ‘crisi’ fosse già presente in tanti articoli di quel periodo: fu una crisi pazzesca, tant’è che, alla fine degli anni ’70 e per una buona parte dei primi anni ’80, migliaia di sale chiusero, causa un forte calo del pubblico, passato dai 525 milioni degli anni ’70 ai 123 milioni del 1985: una vera tragedia. Oggi non sono neanche 100 milioni gli spettatori, causa un susseguirsi di vicende. Insomma, dalla crisi di quel tempo alla crisi di oggi. Ecco com’è nato il libro”.

Con prefazione di Walter Veltroni e postfazione ad Alberto Crespi…
“Veltroni per due ottime ragioni. Uno perché era stato Ministro della Cultura e aveva già proposto da deputato una legge che sbloccò la crisi nei primi anni Novanta e poi fece un grande lavoro per il cinema italiano riaprendo molte sale o creandone di nuove. In più Veltroni era stato il direttore de l’Unità, dunque mio direttore. In qualche modo ‘giocavo in casa’. Alberto Crespi non solo perché è bravissimo, molto colto sul cinema e dal 2017 è al Centro Sperimentale di Cinematografia, ma anche perché è parte viva della mia storia: suo padre, tipografo all’Unità, mi portò una volta da leggere una tesina di Alberto, allora ventenne: la presi, lo ammetto, con un certo fastidio quasi, ma quando alla sera la lessi mi accorsi che era qualcosa di veramente interessante, ben scritto e così, anche se aveva solo 20 anni e non era giornalista, il giorno dopo l’ho chiamato e ha iniziato come collaboratore, bravissimo: infatti è rimasto all’Unità per tanti anni e poi è diventato anche lui caposervizio”.
Cosa ha di specifico il libro da stuzzicare un cinefilo?
“Può magari sembrare strano a molti colleghi, ma sono conversazioni raccolte quasi sempre al ristorante, il più delle volte seduti a tavola, senza taccuino o registratore, con tanti personaggi del cinema che hanno fatto la storia, da Fellini a Scola, da Lea Massari a Mariangela Melato, da Monicelli a Margarethe von Trotta: probabilmente, non avendo davanti un interlocutore pronto con la penna a prendere appunti, si sentivano più rilassati e quindi più ‘disponibili a lasciarsi andare’ e a parlare anche di qualcosa di personale. Non sapevano però che la mia memoria funzionava molto bene: una volta Ettore Scola mi disse che ‘La memoria è la storia’. Mi hanno spesso richiamato per farmi i complimenti per come ero stato fedele a quanto ci eravamo detti chiaccherando. Scola una volta mi disse ‘Ma come cavolo hai fatto, incredibile, senza registratore! Una volta sola ho avuto un problema, con Elio Petri, che prima di diventare regista era stato un giovanissimo critico cinematografico dell’Unità. Eravamo a un tavolo del bar della Rai di Milano e forse perché non avevo per lui l’aspetto professionale di un giornalista dell’Unità perché ero senza taccuino e registratore – comunque, gli avevo parlato di colloquio, non di intervista! – Petri si alza, va alla cassa, prende un blocchetto delle ricevute e me lo porta e mi dice ‘Scrivi le risposte’. Ho dovuto fare lo stenografo, il segretario! Lui dettava e io scrivevo, puntigliosamente, piano piano. L’intervista uscì il lunedì perché allora l’Unità (secondo quotidiano in quegli anni per tiratura e diffusione Ndr) cercava in quel giorno di contrastare i giornali sportivi con un’intera pagina di intervista a personaggi famosi. Lo stesso giorno mi arrivò al giornale una telefonata di Petri molto arrabbiato: ‘Ma cosa cavolo hai scritto queste cose sulla politica, tu hai solo una fantasia galoppante’ mi disse con tono agitato. Calmo, gli chiesi ‘Dove sei?’ e lui ‘Sono alla radio, in Rai’ e io ‘Finisci alle 18, aspettami e ci prendiamo un aperitivo insieme’. Mi presentai con il blocchetto in cui mi aveva fatto scrivere le risposte e quando si rese conto che avevo riportato solo quello che lui mi aveva detto, si scusò, ridemmo e ci ubriacammo insieme. Da allora diventammo grandi amici”.

Che consigli daresti a chi, giovane o no, sta per leggere un libro sul cinema come il tuo? Leggerlo è confrontarsi non solo con la storia del cinema ma anche di quegli anni.
“Bella domanda. Innanzitutto di voler veramente approfondire questi due aspetti. Magari partendo dell’indice uno può ritrovare personaggi del cinema che ha tanto amato, o odiato, per conoscerne meglio la sua personalità (e di conseguenza anche la propria!). Prendiamo Franco Zeffirelli. Eccetto che per un paio di film, io lo considero un grande regista più di teatro, opera lirica, che di cinema. Magari uno si arrabbia a leggere quanto da me scritto su di lui, ma proprio per questo il libro ha come sottotitolo ‘Cinema teatro e tv e la battaglia delle idee’. Sono stato per esempio molto severo sull’operazione ‘Gesù’ di Zeffirelli: sembrava la pubblicità del dentifricio, almeno per quanto se ne ricavava dalla pubblicità dello sponsor inglese, come se fosse in sostanza una cosa per l’alito fresco! Tornando ai libri sul cinema, ce ne sono alcuni che sono autentici libri di storia, di storia del costume, e come per il cibo non puoi farne a meno. Come per esempio il lavoro di Alberto Anile su Alberto Sordi (da storico del Cinema, Anile si è occupato soprattutto di Rossellini, Visconti e Sordi, ma i suoi studi più conosciuti riguardano soprattutto Totò e Orson Welles, nero!). E’ la storia di un italiano, la storia d’Italia fatta attraverso Sordi. Anile aveva preparato un film in cinque parti ma gli mancava l’ultima: da produttore, con il Centro Sperimentale di Cinematografia, gli ho dato una moviola, abbiamo pagato l’assistente. Lui ha cominciato a montare il materiale, che però non è stato mai visto ed è ancora al Centro Sperimentale: ora è tutto fermo per un problema di diritti, con la Rai che ha fermato tutto ha addosso gli avvocati di tutti i produttori”.
Nel libro c’è un una dedica a Giovanni Cesareo, maestro di critica televisiva. Purtroppo molti amanti di cinema e televisione non lo conoscono bene tanto da poterlo molto apprezzare come penso invece meriterebbe…
“Giovanni era un genio spiritoso che faceva finta di essere praticamente un grande ignorante. Non ci teneva mai a far vedere l’immensa cultura che ha accumulato in anni di lettura e di scrittura. Lui è stato uno dei primi a capire, primo critico di televisione in Italia, che bisognava recensire anche la televisione. Si inventò la rubrica ‘Controcanale’, che poi io ebbi in eredità quando lui andò a insegnare all’università, e qui sta anche un altro segno della sua grandezza: non si era mai laureato, non proveniva da famiglia facoltosa, eppure per chiara fama fu chiamato dall’Università Cattolica di Milano ad insegnare, con molto seguito, Sociologia della Comunicazione: un segnale preciso di quel che era Giovanni Cesareo come capacità culturale. Era un docente straordinario, dotato di una grande pazienza e di gigantesco coraggio. Quando nel 1974 la sua compagna Isotta Gaeta, a me giovane trasferitosi da poco da Bari a Milano e collaboratore della Terza Pagina dell’Unità, mi disse che Cesareo stava cercando un redattore per la sua rivista scientifica ‘SE – Scienza Esperienza’ che stava preparando, accettai di incontrarlo: dopo cinque minuti Giovanni mi disse ‘E se ti dicessi come tema Utente’ sei capace di svilupparlo?’ ‘Non siamo a scuola’ risposi e lui ‘No, siamo in una classe di giornalismo, vediamo se ci tiri fuori un pezzo da questo tema’. Penso gli sia piaciuto non solo quello che avevo scritto ma anche la mia sfrontatezza nell’affrontare quel tema rapidamente e lui subito mi assunse. Da lì ho cominciato a capire che a Cesareo interessavano le persone non solo per la loro cultura ma anche per la loro capacità comunicativa nei rapporti. Isotta mi trovò pure un appartamento al quinto piano della palazzina in cui vivevano e che presto, con altri arrivi, si trasformò in una comune di comunisti!”
Voglio fare a te e ai tuoi collaboratori sinceri complimenti per l’alta qualità dei film presenti a questa 11.ma edizione del Bif&st, anche se preparata in poco tempo a causa del lookdown, ma c’è una domanda che mi ronza da tempo nella testa: cosa manca oggi al nostro cinema per sperare di essere meglio apprezzato all’estero, salvo alcuni rari casi…
“Siamo capaci di raccontare molto meno bene di tanti registi stranieri. Un tempo abbiamo avuto un gruppo d’oro, di grandi maestri capaci di affrontare tante tematiche, anche a largo respiro, ora restiamo forse troppo chiusi nella ‘nostra cerchia, ci parliamo tra di noi. In sostanza mancano i grandi sceneggiatori, di grafica ne sono solo pochi. Un tempo non bastavano le dieci dita per contarli, da Amidei a Age e Scarpelli (Agenore Incroci e Furio Scarpelli Ndr), da Solinas a Benvenuti, da De Bernardi a Ettore Scola, Marco Ferreri, solo per citarne alcuni. Era un aggregato i intellettuali che avevano letto moltissimo. Se non hai letto non sai scrivere: questa è la ragione vera della cultura cinematografica. Non vedo in giro grandi lettori, e quindi scrittori. Per convincerci basterebbe pensare, tanto per fare un nome, quale grande divoratore di libri era Pasolini, capace poi di affrontare tematiche diverse nei suoi film. Altri hanno avuto l’umiltà di partire come ‘scorta’ di registi, vedi Pietrangeli. Oggi c’è una penuria di sceneggiatori di cinema di qualità, mentre c’è un bel gruppo di sceneggiatori televisivi. Un tempo c’erano anche grandi romanzieri che si trasformavano in sceneggiatori, ma ora non ci sono più le grandi storie che potevano appassionare, è finita anche la stagione dei film ‘ombelicali’. Ce ne sono ancora, ma li vedono solo in pochi. Si è aggravata la situazione anche perché, penso alla telecamera digitale, tu riesci a fare un film a costo molto abbattuto rispetto, ovviamente, al 35 mm e così c’è gente che fa film che nessuno vedrà mai: sono delle ‘citazioni’ quasi masturbatorie su una piccola idea senza futuro e senza forza, girata magari come viene viene: il guaio è che sono ormai diventati 250 280 questi film, ma se ne salvano al massimo 40, e sono quelli che vediamo. Gli altri provano ad uscire nelle sale sempre più in difficoltà ma non ci riescono e allora li propongono a un festival che non avranno mai film importanti. I festival sono ormai diventati un circuito immenso: ne nascono 10-20 l’anno. Non è tanto una crisi industriale ma di idee: lo strumento macchina da presa è quello che è, sia digitale o pellicola, ma non puoi narrare attraverso le immagini se non sai bene cosa dire, in definitiva se leggi poco. Sai quanti registi, sceneggiatori della domenica ci sono, quanti eh? Quanti pessimi attori in più, scelti quasi sempre tra gli amici”.
Dopo tanti anni di lavoro giornalistico, direzioni artistiche di festival di vario genere ed altri incarichi importanti, non ultimo quello di direttore del Centro Sperimentale di Cinematografia, mi puoi indicare alcuni registi, italiani o internazionali, del passato che non sono stati apprezzati come invece avrebbero magari meritato?
“Beh, ci sono tanti registi che all’inizio non sono stati subito apprezzati ma poi, per fortuna della storia del cinema, rivalutati, penso per esempio a Monicelli e Comencini. O lo stesso Fellini, i cui due primi film ‘Lo sceicco bianco’ e ‘I vitelloni’ non erano stati proprio ben accolti dalla critica, con la loro comica, forse ‘fredda’, ironia, per esserlo invece poi, dopo la buona accoglienza francese. La storia è comunque piena di critici che, per fortuna, hanno poi cambiato idea. Ettore Scola, per diletto, aveva ripreso e riletto gli stessi critici e film 10-15-20 anni dopo: presentavano giudizi opposti a quelli che erano stati espressi, da lui stesso, la prima volta. Si era insomma divertito a prendersi in giro da solo e ad autocriticarsi in maniera molto intelligente per dimostrare come sia necessario il tempo per la riflessione. Ecco torniamo allora a rivalorizzare opere che sono state ignorate in prima battuta, in una specie di Evergreen perché ora tante piattaforme ti sparano su internet non solo i film costosissimi ma anche i classici perché hanno in continuazione bisogno di immagini. È così si arriva alla scoperta di un autore che magari era stato ignorato o abbastanza dimenticato, come nel caso di Marco Ferreri, a suo tempo tollerato ma che non si era riusciti a presentarlo come anticipatore: talento enorme, anche se era maledettamente pessimista nelle sue visioni del mondo. Dietro al suo cinema c’era il segno di una grande letteratura, ma Scola non l’amava molto. Mi disse una volta: ‘Ma ti pare normale che un regista faccia un film su uomo che si vuole tagliare il pene? Se nei tuoi film dici che l’uomo è morto perché fare un film su un uomo?’”.
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Felice Laudadio, nato a Mola di Bari nel 1944, ha lavorato per lunghi anni, quale inviato culturale capo della redazione spettacoli e critico televisivo è teatrale dell’Unità a quei tempi secondo quotidiano italiano per tiratura e diffusione in precedenza. Aveva lavorato da redattore in varie case editrici di Bari e di Milano è stato amministratore delegato dell’Istituto Luce, direttore della Mostra del cinema di Venezia, di Taormina Film Fest, del Premio Grolle d’oro e del RomaFictionFest, presidente di Cinecittà Holding. Ideatore e direttore della Casa del Cinema a Roma, nonché di numerosi festival ed eventi cinematografici in Italia e nel mondo, fra cui il MistFest di Cattolical; le Settimane del Cinema italiano in America Latina dal 1983 al 1989; dal 1990 al 1996 ha coordinato la sezione europea del Palm Springs International Film Festival in California; Premio Solinas; il Premio Fellini e il Bif&st di Bari. Attualmente è presidente del Centro Sperimentale di Cinematografia. Ha scritto e prodotto “Il lungo silenzio” e sceneggiato da “Das Versprechen”, entrambi diretti dalla famosa regista tedesca Margarethe von Trotta, ed è stato il produttore associato di “Al di là delle nuvole” di Michelangelo Antonioni e Wim Wenders. Ha pubblicato “Fare festival” nel 1996, “Il colore del sangue” nel 2005 e “Fotogrammi” nel 2018.
Giovanni Cesareo, nato a Palermo nel 1926, dagli anni 50 è stato uno storico capocronista romano, e inviato, dell’Unità e poi per 15 anni critico televisivo di quel quotidiano, dove nel 1960 ideò la rubrica Controcanale che lasciò nel 1976 per andare ad insegnare Sociologia della Comunicazione all’Università Cattolica di Milano. Nel 1974 aveva ideato per l’Unità la rivista mensile SE – Scienza Esperienza. Attivissimo operatore di cultura, Cesareo è stato uno dei massimi studiosi italiani di massmedia, tanto da essere chiamato a far parte dell’AICA (Associazione Internazionale della Comunicazione Ambientale). Per la Direzione Educational della Rai-Tv ha progettato e poi curato, tra l’altro, il seguitissimo programma Mediamente. È stato direttore di varie riviste specializzate, autore di tanti libri e saggi che costituiscono ancora oggi un’inesauribile miniera di idee e di suggestioni, di provocazioni intellettuali. È morto a Premeno il 16 marzo 2015.