L’elegante spazio che è la libreria Rizzoli del quartiere Flatiron di New York ha ospitato ieri la presentazione del libro “The Penguin Book of Italian Short Stories” di Jhumpa Lahiri.
La scrittrice bengalese-americana premio Pulitzer con il suo libro di debutto “L’interprete dei malanni”, non è solo una scrittrice talentuosa ma una traduttrice, un’insegnante a Princeton e una persona che le parole le sa usare proprio bene, e in tante lingue. Lahiri è un’italofila da anni, traduce i libri di Domenico Starnone, parla italiano benissimo e conosce la nostra letteratura meglio di molti italiani.
A prova di ciò la scelta dei quaranta autori dell’antologia: Calvino, Vittorini, Levi, Buzzati, Fenoglio sí ma anche scrittori come Anna Banti, Luciano Bianciardi, Romano Bilenchi o Fausta Cialente.
Jhumpa è stata intervistata dal giornalista Andrea Visconti della New York University e la conversazione è ruotata intorno alla vita della scrittrice negli anni “italiani’ ma si è anche parlato di traduzione, di identità dello scrittore e soprattutto di letteratura italiana.
Innamorata da anni della cultura e della lingua italiana, Lahiri ha vissuto a Roma per tre anni, fino 2015 dove ha prevalentemente letto in italiano per assicurasi una totale immersione nella lingua. Da quegli anni è già nato nel 2015 la raccolta di storie “In altre parole” scritto interamente in italiano (e con traduzione in inglese a fronte).
“Non so descrivere a parole cosa mi attiri della lingua italiana. Non si tratta solo di estetica, sono tante le lingue belle nel mondo. So solo che quando finalmente ho visitato l’Italia e Firenze per la prima volta, ho sentito un desiderio forte di prendere parte a quella cultura di quella “conversazione”. Ho capito che la mia vita non sarebbe stata completa a meno di non imparare l’italiano” – ci dice Jumpha Lahiri.
I quaranta racconti dell’antologia, “Racconti italiani” pubblicata dalla casa editrice Penguin, sono tutti tradotti in inglese da traduttori contemporanei emeriti come Ann Goldstein e Jenny McPhee. Di questi quaranta racconti, ben sedici sono stati tradotti per la prima volta e ci ricordano quanto sia cruciale il ruolo del traduttore capace, che sa portare da una nazione all’altra non solo una storia ma un pezzo prezioso di letteratura.
I traduttori dell’antologia sono tantissimi, ma ne citiamo qualcuno: Howard Curtis, Lawrence Venuti, Keith Botsford, Michael F Moore, Erica Segre, John Shepley e altri.
Lahiri stessa traduce sei nuovi racconti tra cui quelli di Goffredo Parise, di Italo Calvino, di Corrado Alvaro, Fabrizia Ramondino e Lalla Romano. Quando LaVoce di NY le chiede come ha scelto gli autori da tradurre ci risponde “Non avevo tempo di tradurre tutti i sedici racconti mai tradotti e ho dovuto fare una scelta. Ho scelto quelli che sentivo più vicini a me. La prima volta che ho letto Lalla Romano mi sono chiesta come sarebbe stato tradurre le sue parole e idee in italiano. Sono stata incantata allo stesso modo da Fabrizia Ramondino. Carlo Cassola invece mi ricorda Joyce, uno dei miei scrittori preferiti. Tradurre Corrado Alvaro (l’autore calabrese di “Quasi una vita” che ricevette lo Strega nel 1951) invece è stata la sfida più grande: il suo linguaggio da poeta-scrittore è molto complesso”.

Tra i racconti inediti di questa raccolta anche il “Dialogo con una tartaruga” racconto di Italo Calvino scritto per essere incluso in “Palomar” ma poi tagliato. La stessa Giovanna Calvino, (figlia dello scrittore) ne ha consigliato la pubblicazione nella raccolta di Lahiri. Il racconto è stato anche parte di un esercizio di traduzione che Lahiri ha svolto con i suoi studenti a Princeton e ha concluso con l’aiuto della sua assistente di ricerca Sara Teardo.
Da dove nasce la tua passione per i racconti brevi?
“Mi piacciono i racconti perché sono liberi da pesi inutili, da preoccupazioni, dall’ansia di pubblicare. Con i racconti uno scrittore può sperimentare e provare a fare tante cose diverse, può anche essere un’altra persona. La storia di Primo Levi per esempio fa parte di una collezione (Storie Naturali) che fu pubblicata con lo pseudonimo di Damiano Malabaila sotto consiglio dell’editore, per rifuggire dall’etichetta che aveva di “scrittore dell’olocausto” (dopo “Se questo è’ un uomo”). Storie come queste, leggendarie e di fantasia non sembrano correlate alla sua identità, ma certamente lo sono, lo scrittore è lo stesso. E’ una nuova identità nella sua identità”.
Quando la discussione si è spostata sul concetto di identità, nel senso di uno scrittore che parla e scrive in più lingue, Lahiri ha ammesso: “Sono una persona diversa quando parlo un’altra lingua, perché ogni lingua che parlo appartiene ad un dato contesto della mia vita, il bengalese è la lingua della mia famiglia e della mia infanzia, l’inglese è la lingua che ho imparato dalla TV, l’italiano è la lingua della mia vita adulta visto che l’ho imparata quando avevo già 45 anni e la Jhumpa degli anni precedenti non c’era più”.
Il libro è disponibile in inglese per il pubblico anglofono e italofilo ma anche in italiano, per chi molti dei nostri connazionali eccelsi non li ha ancora letti.
Qui per maggiori info sugli eventi della Rizzoli.
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