Imparare a parlare una lingua, fare i primi traballanti passi linguistici, assaporarne le sfumature di significato, esplorarne il colore, superare le frustrazioni con l’ostinata determinazione della passione e ritrovarsi con una nuova voce con cui dare espressione ai propri pensieri. È l’esperienza raccontata dalla scrittrice americana di origini indiane, Jhumpa Lahiri che, nella sua prima apparizione pubblica dopo il ritorno dall’Italia, il 5 ottobre è stata ospite di un partecipatissimo incontro con un pubblico di quasi 500 persone, alla Montclair State University, all’interno del calendario di eventi dell’Inserra Chair in Italian and Italian American Studies.
Nata a Londra da una famiglia originaria del Bengala occidentale e trasferitasi nel Rhode Island da bambina per poi stabilirsi a New York, Lahiri si è innamorata della lingua italiana durante un viaggio a Firenze, subito dopo la laurea. L’allora poco più che ventenne Lahiri si accorse che c’era qualcosa di familiare nell’italiano. “L’italiano sembra già dentro di me e, al tempo stesso, del tutto esterno – scriverà Lahiri – Non sembra una lingua straniera, benché io sappia che lo è. Sembra, per quanto possa apparire strano, familiare. Riconosco qualche cosa, nonostante non capisca quasi nulla”.
Da allora la sua passione per l’italiano l’ha accompagnata in un lungo e a volte tormentato percorso che nel 2012 l’ha portata a decidere di trasferirsi con marito e figli a Roma. Durante i suoi tre anni romani, Lahiri ha approfondito la conoscenza dell’italiano, addentrandosi in una personale riflessione sul rapporto con la lingua, la scrittura e le emozioni legate al reimparare ad esprimersi attraverso un lessico nuovo. Le sue riflessioni sono state pubblicate per 21 settimane in una rubrica sulla rivista Internazionale e poi raccolte nel libro In altre parole (Guanda, 2015), vincitore del Premio Internazionale Viareggio-Versilia.
Nel suo intervento alla Montclair University, Lahiri, rispondendo alle domande di Teresa Fiore, chair della cattedra Inserra, e di Tiziana Rinaldi Castro, docente di Classics and Humanities, ha condiviso le proprie riflessioni con il pubblico, raccontando la sua esperienza ed esplorandone i risvolti.
Come ha spiegato Teresa Fiore nell’introdurre la scrittrice, il tema delle serata era incentrato sulla scoperta dell’italiano, ma se si fosse sostituita questa lingua con un’altra, il discorso sarebbe stato altrettanto interessante e affascinante: la chiave, infatti, è il passaggio da una lingua all’altra in età adulta, la scoperta, anche emotiva, delle connotazioni di significato di un universo linguistico nuovo. L’esplorazione, da parte di una scrittrice già affermata e dalla “voce” ben identificabile, della pratica della scrittura attraverso una lingua diversa da quella che l’ha resa nota e in cui negli anni ha costruito la sua identità artistica, apre ad una serie di considerazioni su quanto e come una lingua condizioni il “sapore” della scrittura e l’effetto che le parole hanno su chi le legge. “Due lingue non sono mai completamente intercambiabili”, ha detto il direttore dell’Istituto italiano di cultura, Giorgio van Straten, introducendo l’evento e spiegando così il comprensibile desiderio di chi lavora con le parole di esplorarne di nuove.
Lahiri ha ripercorso la storia raccontata nel libro In altre parole, dal primo viaggio in Italia e dalla scoperta di quella inspiegabile familiarità, fino alla decisione di trasferirsi a Roma e all’esperienza di trovarsi circondata dalla lingua del cuore. Nel mezzo, un lungo e faticoso “corteggiamento”, come la scrittrice ha più volte definito i suoi tentativi di avvicinamento all’italiano: “Era come se gli corressi dietro, chiedendogli di prestarmi attenzione”, ha detto. Per anni Lahiri ha studiato l’italiano negli Stati Uniti, cambiando diversi insegnanti e facendo lunghi viaggi settimanali fino a Bensonhurst, quartiere italiano di Brooklyn, per incontrare l’insegnante che finalmente riuscì a farla sentire più vicina a quell’universo linguistico da cui per lungo tempo si era sentita esclusa. “La lingua è una pietra, non ricambierà il mio amore”, ha detto la scrittrice raccontando le sue sensazioni di allora. La sua era diventata come una relazione a distanza: con l’insegnante di Bensonhurst era riuscita finalmente a schiudere una porta, ma la lingua era ancora lontana. Così la decisione di trasferirsi lì dove la lingua era di casa. In Italia, la lingua non ha smesso di essere una “pietra”, non ha iniziato a ricambiare il suo amore ma, ha spiegato Lahiri: “Ora mi sento amata in italiano, dalle persone che ho incontrato. […] E ora che sono qui quelle persone mi mancano in italiano”. Nello spiegare questo concetto, la scrittrice ha raccontato che, essendo nata e cresciuta in una famiglia di lingua bengalese, non aveva esperienza dell’inglese come lingua dell’amore familiare e per questo, quando nacque il suo primo figlio, inizialmente fece fatica ad utilizzare l’inglese per esprimere e convogliare il suo amore materno.
L’italiano, invece, è stato da subito, per Jhumpa Lahiri, una lingua di emozioni, di affetto anche struggente. Come tutti gli amori, il suo rapporto con l’italiano è stato segnato da momenti di frustrazione, di paura e di fatica, acuiti dall’arrivo in Italia: “Una settimana dopo l’arrivo in Italia, mi sono ritrovata a scrivere sul mio diario in italiano, senza nemmeno pensarci. All’inizio è stato spaventoso. Il mio italiano era terribile”. Il trasferimento in un paese straniero presenta di per sé non poche difficoltà che la scrittrice americana ha affrontato sempre attraverso il filtro della lingua: “Verrebbe da pensare che, dopo aver vissuto tutta una serie di esperienze anche difficili e frustranti durante la giornata, a sera potessi trovare conforto nello scrivere in inglese, e invece mi mettevo a scrivere in una lingua che era frustrante di per sé. Ne ero imbarazzata e non ne parlavo con nessuno. Eppure mi sembrava che fosse il mio ossigeno, ciò che mi teneva in vita”.
Poi ancora lezioni di italiano, i continui sforzi, le delusioni e infine un giorno un racconto breve scritto in italiano e in soli due giorni, scritto come sotto dettatura, in una sorta di automatismo. “Ho iniziato a scrivere sempre più spesso dell’impatto emozionale di imparare un’altra lingua: una delle esperienze più forti per un essere umano. Mi sono resa conto che qualcosa si stava sviluppando e ho iniziato a scrivere quelle note che poi sono diventate il libro”.
Un processo, anche quello della scrittura del libro, vissuto con l’ostinazione di chi sta facendo un percorso personale, le cui ragioni sono le ragioni del cuore, più che del cervello. “In molti, sia in Italia che qui, mi chiedevano perché parlassi italiano e non volevo continuare a spiegarlo. Avrei semplicemente voluto dire: ‘perché no?’. Ma non è da me, e allora forse mi sono sforzata anche io di trovare una ragione. E scrivere questo libro mi ha liberata. Non c’è una ragione, la ragione sono io”. Man mano che quelli che poi sarebbero diventati i capitoli del libro apparivano sulle pagine di Internazionale, ha raccontato Jhumpa Lahiri, aumentavano i commenti perplessi della gente: molti erano sorpresi della sua scelta di scrivere in italiano e non pochi le sconsigliarono di imbarcarsi in un’operazione del genere, sostenendo che avrebbe potuto addirittura danneggiarla o sindacando su alcune delle sue scelte linguistiche e lessicali ormai sotto gli occhi di tutti. “Mi dicevano: ‘strano che hai usato quell’espressione o quella struttura, io non l’avrei scritto così’. Certo che non l’avresti scritto così, perché tu non sei me”. Il suo percorso era ed è personale, il suo italiano, seppure pulito e formalmente corretto, va oltre le regole grammaticali o lessicali per diventare il suo italiano, espressione di una specifica esperienza di quella lingua e di quella cultura. E In altre parole diventa così un libro documentario che racconta un esperimento che è linguistico ma anche umano.
L’esperimento di Jhumpa Lahiri è, in fondo, l’esperienza di ogni expat, quello sforzo di sanare lo scollamento tra contenuto ed espressione legato all’uso di una lingua di cui non si ha esperienza, né memoria. Le lingue, oltre ad essere strumenti, sono un viaggio in una nuova cultura e sperimentare se stessi in una lingua che non è quella nativa significa (almeno idealmente) conoscere gli altri e se stessi in un modo nuovo. È un’esperienza al tempo stesso antropologica e psicologica, umana, nel senso pieno del termine. Per questo quando si è posta la questione della traduzione del libro dall’italiano all’inglese, Jhumpa Lahiri ha sentito un moto di protezione nei confronti di quella sua creatura, imperfetta forse, ma sua. La scrittrice ha deciso di non occuparsi personalmente della traduzione del libro, un po’ per evitare la tentazione di imbellire, di migliorare il suo italiano attraverso una lingua, l’inglese, in cui la sua palette espressiva è più articolata, un po’ perché ha trovato sgradevole l’esperienza di tradurre se stessa a partire da una lingua imparata a 45 anni. Il libro uscirà negli USA a febbraio, con il testo italiano a fronte, proprio per “conservare” quanto più possibile di quella creatura imperfetta e di quel processo di acquisizione degli strumenti linguistici cui Lahiri ha dedicato una parte importante della propria vita da adulta.
Jhumpa Lahiri sarà il 22 ottobre alla Casa Italiana Zerilli Marimò della NYU in conversazione con la scrittrice Chiara Marchelli in un evento in italiano dal titolo, Le parole per dire “casa”. Il dialogo tra le due lingue, così come lo scambio tra le due scrittrici, le due donne e le due anime che sono figlie di quelle due lingue, prosegue.
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