Un quieto pomeriggio a Palermo, a casa di Annamaria Sciascia, a parlare del padre. Donna quieta, discreta, sensibile, accetta il mio invito per una intervista per il “TG2”, raccontare il padre. Inevitabile parlare delle feroci polemiche nate dopo il 10 gennaio del 1987, quando Leonardo pubblica sul “Corriere della Sera un lungo articolo, redazionalmente intitolato “I professionisti dell’antimafia”.
Un articolo accolto da una quantità di polemiche animate da tanti, in cattiva, pessima fede; e da qualcuno (pochissimi, invero) in buona fede. Lo stesso Leonardo Sciascia lo ha previsto, messo in conto. Non per caso l’incipit: “Autocitazioni, da servire a coloro che hanno corta memoria o/e lunga malafede e che appartengono prevalentemente a quella specie (molto diffusa in Italia) di persone dedite all’eroismo che non costa nulla, e che i milanesi, dopo le cinque giornate, denominarono ‘eroi della sesta’…”. Avvertimento, precauzione inutile. La madre dei cretini non conosce preservativi e anticoncezionali.
La polemica, presto trascende. Un fino ad allora semi-sconosciuto Coordinamento Antimafia giunge a scagliare, in un suo comunicato, l’insulto: “…Certo, caro Sciascia vivere nella tranquillità bucolica delle campagne racalmutesi è cosa ben diversa che vivere nell’angoscia della probabile vendetta mafiosa. E scrivere di mafia come dell’”araba fenice”, è ben diverso che rinviare a giudizio trafficanti e boss. Certo, così vivendo si rischia molto meno: ma si diventa, a poco a poco, dei quaquaraquà”.
Ora come tutti coloro che hanno letto Il giorno della civetta, o ne hanno visto il film, “quaquaraquà” è l’insulto riservato dai mafiosi al capitano dei carabinieri che ha sostituito Bellodi, rimosso perché faceva effettiva ed efficace lotta di contrasto alla mafia. Il coordinamento antimafia si esprime come i mafiosi, ed è già questo, da solo, indicativo.
La lascio per ultima, la domanda. Di tempo ne è trascorso, ma ho timore di riaprire una ferita che non si cicatrizza. Annamaria parla con a bassa voce, un filo di emozione. La risposta la immagino, la telecamera ronza, l’operatore attende. Ecco, lo dico: suo padre è stato spesso al centro di tante polemiche, alcune hanno comportato la insanabile rottura con amicizie consolidate. Qual è stata la polemica che a lui, ma anche a voi della famiglia, vi ha maggiormente ferito? «L’ultima: quella sui professionisti dell’antimafia», risponde Anna Maria. «Ed è una polemica che continua a tormentarci, non si è mai sopita, non finisce mai: c’è sempre qualcuno che la ritira fuori, strumentalmente; questo è il dolore e il dispiacere più grande: vedere la malafede e non poter fare nulla. Nella lettera che mio padre ci lasciò prima di morire lui ci raccomandava di non perdere tempo a difendere la sua memoria; e quindi quando vedo mio marito o i miei figli agitati per queste polemiche dico loro di tenere conto di quanto ci ha raccomandato, che è tempo perso, perché un familiare che difende è un po’ patetico. Però fa male, questa è una polemica che gli ha avvelenato sicuramente gli ultimi anni, perché lo hanno accusato in modo volgare, meschino».
Non meritava (e non merita) assolutamente la caterva di insulti che Sciascia ha dovuto subire. Quella polemica, a costo di rinnovare pena e dolore; perché di certe cose, di certe affermazioni è doveroso serbare memoria, non dimenticare. E’ quello che ci aiuta a fare Gesualdo Nasca con il suo agile e insieme denso Battaglie di carta. Sciascia e i professionisti dell’antimafia, pubblicato da Youcantprint (pagg.192, 15 euro).
Non credo si debba e si possa, nel caso di Sciascia, fare una distinzione tra lo scrittore di romanzi e racconti, il paziente cesellatore di storie vere commentate e chiosate con sapiente acribia, il polemista capace di sollevare e agitare questioni di puntuale attualità, ma sempre con cinque minuti di anticipo, rispetto al dominante conformista: l’aver parlato di mafia quanto tanti ne ignoravano l’esistenza, e molti la negavano (e non solo nei libri; gli articoli e le inchieste per Il Giorno e Mondo Nuovo); le polemiche sul “dovere” all’impegno degli intellettuali, e il diritto (anche) di non essere amorfe, acritiche “sentinelle di un bidone vuoto di benzina”; il terrorismo, il caso Moro; e appunto il “professionismo” di certa antimafia…
Quell’articolo mette in guardia da rischi e pericoli che puntualmente poi si sono avverati, si verificano.
Tempo Presente negli anni ‘50 del secolo scorso è una bellissima rivista che fa ed è cultura, diretta da Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte. Su Tempo Presente Sciascia pubblica i primi articoli sulla mafia, tra gli altri un’acuta recensione a un saggio del capitano Renato Candida, Questa mafia; proprio Candida è il modello per il capitano Bellodi.
“L’intellettuale”, annota Chiaromonte in un suo taccuino, “non rappresenta nulla se non rappresenta l’individuo e la sua libertà, se non mantiene a qualunque costo il principio stesso della sua individualità, il diritto al dubbio e alla critica, il senso del vero e del falso, il rifiuto delle menzogne inutili. In questo la sua funzione è eminentemente sociale, eminentemente solidale dei diritti di ognuno, e dei più umili, cioè dei più silenziosi e dei più facilmente ingannabili”.
È il ritratto di Leonardo Sciascia, che emerge dalla lettura della sua opera, i suoi libri, i suoi articoli e interventi, le note e le interviste.
Intellettuale come furono e seppero esserlo Pier Paolo Pasolini, Silone, Elio Vittorini, Ennio Flaiano, Alberto Savinio, per limitarsi a qualche nome. Nel caso di Sciascia attualissime e fulminanti, le sue definizioni; per esempio l’individuazione del “cretino”, nella sua essenza: colui che non osa dire la verità, quando questa va contro la sua parte. Soccorre al riguardo la lettura di una piccola nota di Nero su nero (pag.22 della edizione Einaudi, collana “Gli Struzzi”):
“Intorno al 1963 si è verificato in Italia un evento insospettabile e forse ancora, se non da pochi, sospettato. Nasceva e cominciava ad ascendere il cretino di sinistra; ma mimetizzato nel discorso intelligente, nel discorso problematico e capillare. Si credeva che i cretini nascessero soltanto a destra, e perciò l’evento non ha trovato registrazione. Tra non molto, forse, saremo costretti a celebrarne l’Epifania”.
Telegrafica, ma esatta ed esauriente notazione. Valida allora come ora, anche se da tempo quell’“epifania” la si è celebrata.
Le prime notizie con la precisa denominazione di cretino di sinistra, Sciascia le ha leggendo un articolo di Georges Bernanos scritto al tempo della guerra civile in Spagna, “quando scrive che non sa se a rompergli la testa arriverà per primo un cretino di sinistra o un cretino di destra. Comunque quello del cretino di sinistra è un fenomeno complesso, perché si apparenta o si specchia nell’intelligente di sinistra o da questo nasce come per partenogenesi”.
I due personaggi, in realtà, sono uno solo; calzante esempio è costituito da Andrei Malraux: “Uomo, peraltro, di grande intelligenza. E’ un episodio che racconta lo stesso Bernanos. Malraux e Bernanos si incontrano quando quest’ultimo aveva appena scritto “I grandi cimiteri sotto la luna”. Malraux gli fece i suoi complimenti. Perché? Ho semplicemente scritto la verità, rispose Bernanos. Sì, ma avete detto la verità contro la vostra parte; io non sarei mai stato capace di dire la verità contro i comunisti, replicò a sua volta Malraux, che in quel momento era comunista. Dunque, io per voi sono un imbecille, avendolo fatto. E allora dei vostri complimenti non so che farmene, concluse Bernanos. Malraux in quell’occasione è l’esempio di un imbecille di sinistra; di uno che non crede sia possibile dire la verità contro la propria parte che intanto è divenuta anche l’altra parte, appunto grazie alla necessità della menzogna, e cioè del riconoscimento fatto da Malraux che la sua parte può aver bisogno della menzogna o del silenzio della verità”.
Ne trova tanti sulla sua strada, di cretini, Sciascia. Cretini di sinistra, di destra; e anche senza etichettatura politica. Tra i loro segni distintivi la “spiccata tendenza alla saggistica e verso tutto ciò che è difficile. Credono che la difficoltà sia profondità”. Come salvarsene? Quale igiene adottare per anestetizzarli? “Fare tutto l’opposto. Essere concisi, semplici, chiari. Leggere romanzi. Ascoltare la gente. Andare in autobus e in treno”.
Sono alcune delle riflessioni suscitate dalla lettura del saggio-memoria di Nasca. Saggio che è racconto, raccolta di documentazione dispersa, su cui l’autore riflette con partecipata attenzione. E qui, a mo’ di conferma, ma anche per dare al lettore un assaggio del libro, merita d’essere riportata un passaggio: “Conoscere, comprendere e spiegare il giornalismo di Sciascia significa approfondire un percorso umano e professionale lungo e inconsueto, significa mettere in rilievo due aspetti fondamentali, che non è facile riscontrare in altri percorsi. L’essenza del giornalismo di Sciascia, sia nei quotidiani nazionali, sia nei quotidiani locali, è costituita indubbiamente anche dal polemismo, ovvero il primo di quei due aspetti che è necessario prendere in considerazione: è anche attraverso la polemica che emerge una delle peculiarità più incisive e pregnanti del ‘giornalista di Racalmuto’, l’impegno civile, che è possibile apprezzare anche nei vari libri dello ‘scrittore di Racalmuto’…”.
Buona lettura: che la lettura è buona.