Rompe gli argini. Attraversa mondi. Si inserisce tra culture diverse. Supera l’oceano. Ma ritrova sempre la strada. Con sofferenza e meraviglia. Con incanto e lucidità. Uno scrigno che custodisce tutto. I profumi speziati di Harlem. Gli odori del Sud. I suoni dei dialetti. Il sudore della fatica. Tre protagonisti e un’autrice che, come una perfetta tessitrice, tiene insieme ogni dettaglio. Che racconta un mondo a metà. Tra la New York degli anni ’80, dove l’America dei sogni diventa reale, e l’Italia di provincia, delle salse e dei santi, dove tutto è cominciato. E da dove la protagonista del libro, Bruna Di Michele, si allontana.

Il 29 settembre, alla Casa Italiana Zerilli Marimò della New York University le luci soffuse dell’auditorium hanno accolto Come della Rosa, il romanzo di Tiziana Rinaldi Castro, edito da Effigie. Sul palco, oltre all’autrice, anche la scrittrice statunitense premio Pulitzer per la narrativa, Jhumpa Lahiri e Teresa Fiore, professoressa della Montclair State University. “Tre donne con tre cose in comune”, ha detto Stefano Albertini, direttore della Casa Italiana NYU, presentando l’evento a cui hanno partecipato in tanti: “Tutte e tre scrivono in italiano e in altre lingue. Tutte e tre vivono a New York. E tutte e tre vengono da parti del mondo diverse”. Sul palco, sono sedute una accanto all’altra. Lahiri e Fiore con dei fogli e una penna, per annotare domande e impressioni durante il dibattito. Rinaldi Castro, invece, con un microfono in mano e il suo libro.
“Tiziana è un ponte”, spiega Lahiri che, per prima, prende la parola. “Lei è insegnante, insegna Omero. È scrittrice, fa la giornalista. È italiana ma anche un po’ americana. La sua è un’identità complessa”, continua l’autrice di origini indiane. Domenico Starnone l’ha definita “italiana d’America”, un’entità nuova, diversa da quella degli italo-americani. Rinaldi Castro accenna un sorriso mentre osserva la sala attraverso la fessura dei suoi occhiali da vista. Jhumpa Lahiri la definisce quasi un’apolide con un grande senso di appartenenza, che rende fluida la scrittura del romanzo, a tratti esoterico. E dove al centro si muovono tre personaggi di grande rilievo. Bruna, la giovane protagonista, una fotografa freelance inghiottita dall’alcolismo e arrivata a New York da sola, con una figlia piccola. Emiliano Westwood, una figura errante sempre in bilico tra bene e male. E Mama, sacerdotessa yoruba in un tempio di Harlem e personaggio materno, che aiuterà Bruna, soprannominata “Lupo”, nel suo percorso di guarigione.

Un libro pieno di sofferenza, di rimandi letterari e di poesia, mutuata da anni di letture e di ricerca che Tiziana Rinaldi Castro ha imparato nella biblioteca del padre a Sala Consilina, un paese di poco più di 12mila abitanti nella provincia di Salerno. Poesia che, secondo Rinaldi Castro, ha “potere taumaturgico”. Nella storia, infatti, frequenti le citazioni che l’autrice del romanzo vede come “una forma di preghiera”.

Ricorrente anche l’immagine del filo, che si usa per chiudere le ferite e per tenere insieme i pezzi. “Questo ci fa pensare al filo di Arianna, che guida Teseo fuori dal labirinto”, osserva Lahiri. “Il racconto è, nel libro, lo strumento di guarigione perché il dialogo è al centro di tutto: Mama pensa che le persone guariscano attraverso il racconto perché è ciò da cui si impara”, risponde Rinaldi Castro. “Il filo, poi, rappresenta anche la lentezza del cucire, del ricamare, necessaria a guarire”.
“Tiziana è creola”, osserva Teresa Fiore, che definisce il suo romanzo come la radice sotterranea di una pianta che si diffonde in varie dimensioni e su tanti piani diversi per raggiungere mondi lontani. “Leggendo il libro si passa da alcuni paesi della Calabria e dell’Irpinia, fino a New York. Si attraversano luoghi che non si conoscono.

C’è poi un glossario e tante lingue: l’italiano, lo spagnolo, i dialetti. E poi, le citazioni: da Edgar Allan Poe a Miles Davis”. L’amore per l’inglese, per quello americano e i suoi dialetti. La passione per un luogo esotico, multietnico dove si cerca e si perde continuamente la strada. Ma anche l’America lirica l’autrice l’ha cercata soprattutto in Harlem, in Brooklyn, nel Sud degli Stati Uniti e nel West. “Perché la letteratura è un medium”, spiega l’autrice.
Inevitabile anche qualche lieve accenno alla vita personale di Rinaldi Castro. Che però precisa: “Io la definisco autofiction, quindi con una componente di finzione perché se ci si attiene troppo alla realtà, si perde il senso del vero”.