È di pochi giorni fa la notizia che Le notti blu (Giulio Perrone Editore), ultimo romanzo di Chiara Marchelli, è in lizza per il premio Strega. Una bella soddisfazione per l’autrice, valdostana di origini ma newyorchese dal 1999. Come nei suoi precedenti romanzi Angeli e Cani ( Marsilio) e Sotto i tuoi occhi ( Fazi), L’amore involontario (Piemme), incentrato sul rapporto tra fratello e sorella e Le mie parole per te (Piemme), storia di una coppia tutta al femminile, l’autrice affronta il tema di un rapporto d’amore complesso. Questa volta è il rapporto tra due genitori al centro della scena. Per chi perde un figlio non esiste dolore più grande, non esiste nemmeno una parola che lo definisca: non si è orfani e non si è vedovi, non si è. E basta. In questo abisso di emozioni si snodano le vicende di Larissa e Michele, una coppia che si trova a confrontarsi con la perdita di un figlio.
Abbiamo raggiunto la scrittrice a New York nelle ore immediatamente successive all’annuncio della candidatura del suo Le notti blu, sostenuta dal direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di New York, Giorgio van Straten, uno dei due “Amici della domenica”, insieme a Elisabetta Mondello.
Come è arrivata la notizia della candidatura allo Strega?
“La candidatura allo Strega parte dall’ editore. Giulio Perrone me ne ha parlato subito e insieme abbiamo pensato a due giurati che potessero candidare e sostenere il libro. Ad aprile verrà selezionata la dozzina dal Comitato del Premio, ed è quella la data che aspettiamo. Incrociamo le dita!”.
Questo romanzo affronta il tema del lutto di due genitori. Perchè hai scelto questo tema e come hai vissuto la scrittura della storia?

“Le storie nascono dentro di noi, e poi ne escono, per tante ragioni. Le viviamo, le incrociamo, ne sentiamo parlare, le immaginiamo. Ho scritto questa perché mi premeva dentro da tempo e andava raccontata. Con i rischi del caso: non sono genitore, tanto meno un genitore che ha perso un figlio, e il pericolo era enorme. Mi dicono che sono riuscita a scrivere con rispetto e delicatezza e credo che questo sia dovuto al fatto che lavoro sulla scrittura con precisione maniacale, a togliere, per rendere me stessa invisibile e permettere alla storia di raccontarsi da sé. In più direi che il romanzo non è sul lutto, ma sulla possibilità di procedere. È la storia di come due persone, due genitori, attraversano la vita dopo una perdita così grave, e come reagiscono all’ irruzione della vita. Il libro si apre con una telefonata che la vedova di Mirko, il figlio, fa a Michele e Larissa, i due genitori, nella quale dice di avere trovato una lettera secondo cui Mirko potrebbe avere avuto un bambino da un’altra donna. Questo evento spacca i fragili equilibri della sopravvivenza, fa entrare una luce che obbliga queste due persone a guardare in faccia l’opportunità di tornare alla vita. Li obbliga a scegliere, perché la vita presuppone questo, che si scelga, mentre il lutto li aveva sino a quel momento saldati in un patto saldissimo, ma sordo”.
Una parte della storia è ambientata a New York. Come respiri la città e quali suggestioni ne trai per la scrittura?
“New York mi regala la distanza necessaria a scrivere dell’Italia. Era accaduto a Natalia Ginzburg prima e meglio di me, quando scrisse Le voci della sera da Londra, dove viveva perché il marito Gabriele Baldini ne dirigeva l’Istituto Italiano di Cultura. Calvino le scrisse una lettera in cui diceva che questo era il libro in cui si sentiva di più il suo Piemonte: ‘Questo Piemonte, ora che ne sei lontana, mentre prima sempre lo sfumavi e lo genericizzavi, ora ti esce fuori da tutti i pori. Mai letta una cosa così piemontese, piemontese da far piangere’. Credo che essere lontani agisca sul meccanismo della memoria in un modo del tutto particolare, in questo senso, attivando le valvole della nostalgia da una parte e del distacco dall’altra. Il risultato, almeno per me, è l’immersione completa in una dimensione sospesa, che è il territorio della scrittura. Quando invece scrivo le parti delle mie storie ambientate qui, mi basta osservare, qualità essenziale di ogni scrittore, e rimasticare ciò che serve. New York in questo senso funziona come qualsiasi altro luogo. Le energie della città non hanno nulla a che fare con il processo creativo per me, anzi. Ho bisogno di silenzio per scrivere, di tempo. Servono per il mio vivere quotidiano, questo sì, che poi prende la sua strada nel corpo, vi si deposita, e ne riesce come scrittura. Sarei curiosa di vedere come funzionerebbe questo meccanismo se io lasciassi New York per rientrare in Italia. Chissà, forse prima o poi lo scoprirò!”.
II romanzo è anche un’immersione, oltre che nel dolore del lutto, anche nella dinamica amorosa del genitore. Come hai costruito i personaggi di Larissa e Michele?
“Osservando, ascoltando, immaginando, e amandoli molto. Ho provato e provo un affetto enorme per questi personaggi, perché li sento reali, o perlomeno molto vicini alla realtà: per molti tratti sono ispirati a persone che ho incontrato e cui ho voluto bene. E poi sono figlia: certe dinamiche, capovolte, mi hanno aiutato. Anche a comprendere meglio i miei genitori”.
Quali scrittori americani prediligi e quali ti hanno ispirata durante la tua carriera?
“Uno su tutti: Hemingway, che mi ha ispirata in molti modi, soprattutto per quanto riguarda il metodo. Tra i contemporanei, Grace Paley, Kent Haruf, qualcosa di Jennifer Egan e A.M. Homes, anche se gli scrittori che amo di più non sono statunitensi. E cioè Annie Ernaux, Marguerite Duras, Alice Munro, Ian McEwan, Beppe Fenoglio, Giorgio Bassani, Natalia Ginzburg, William Trevor, Chaim Potok, Abraham Yehoshua, Lucia Berlin. Tra gli italiani miei contemporanei, mi piacciono molto i primi Andrea Bajani, Valeria Parrella, Michela Murgia, ma, appunto, tutti e tre verso i loro esordi, nella prima parte della loro carriera”.
Secondo la tua esperienza, negli USA è più semplice o più complesso farsi strada nel campo della scrittura?
“Non saprei rispondere con esattezza. Io pubblico in Italia, scrivo in italiano. Questo è un aspetto fondamentale per me: l’italiano nel tempo è diventata la mia casa, la mia identità. Quindi non so cosa significhi proporsi a un agente e tentare l’iter della pubblicazione qui. Immagino che la potenza dei social sia maggiore che in Italia: gli scrittori comunicano con il loro pubblico in maniera estremamente efficace, alcuni di loro sono molto presenti, il web viene utilizzato con grande assiduità, e perciò in questo senso è probabile che le opportunità di farsi leggere e conoscere siano potenziate. È anche vero che a New York si moltiplicano occasioni di incontro, come i reading e gli slam. Strumenti che in Italia si usano, ma in proporzione minore, anche per un fatto di dimensioni. Sto seguendo invece con grande interesse l’attività di alcune piccole librerie indipendenti in Italia, e mi auguro che la direzione sia questa: un ritorno alla personalizzazione, alla concentrazione sullo scrittore e sul lettore. Sono convinta che la direzione da prendere – e che tutti quanti, credo, prenderemo – sia proprio questa: l’unicità, la particolarità, il locale. Per quello che mi riguarda, spero certamente che Le notti blu venga tradotto in inglese e pubblicato negli Stati Uniti, e a quel punto saprei risponderti. Siamo ottimisti e rimaniamo così: ne riparliamo più avanti!”.